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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Eddie Vedder for President

La matrice politica dei Pearl Jam non è mai stata più evidente, e oggi è in grado di smuovere voti.

I Pearl Jam compiono trent’anni. Avrebbero voluto festeggiare con un nuovo tour mondiale, e invece tocca fare altro. Come, per esempio, scendere in campo per far vincere Joe Biden. Con buona pace di parte della fanbase, che li vorrebbe solo musicisti. E l’esito della campagna presidenziale americana pare aver dato loro ragione.

Pandemia canaglia

Nell’immenso caos provocato dal COVID-19 nel mondo musicale, forse non è stato abbastanza chiaro il dramma dei Pearl Jam. Riassumendo la cosa: una band che non pubblicava un disco dal 2013, si è trovata ad averne pronto uno nuovo di zecca – partorito con lentezza e fatica – e una data di uscita che recitava “27 marzo 2020”, ovvero quando gran parte del mondo aveva già chiuso serrande e confini. Un album figlio del suo tempo e nipote di Greta Thunberg, con un titolo tanto pomposo quanto improbabile: Gigaton, vecchia unità di misura utilizzata per rilevare il livello di scioglimento dei ghiacciai.

Come vuole la tradizione, tutto comincia con una serie molto ottimistica di date in Nord America — saltate, ovviamente.

Eddie Vedder non poteva immaginare – o forse sì, come Bill Gates – che l’umanità avrebbe patito una catastrofe virale, ancor prima di quella causata dallo scioglimento dei ghiacciai e dall’estinzione delle api. E che quel disco, in qualche modo, avrebbe parlato un linguaggio più che mai consono al momento che la Terra sta vivendo.

Notoriamente una band non avvezza alla promozione, i Pearl Jam hanno studiato per Gigaton una campagna comunicativa molto elaborata e originale, sin dalla fase di lancio, con una sorta di caccia al tesoro in realtà aumentata, e un’app che permetteva di scaricare i singoli puntando il cellulare alla luna (tutto vero). Soprattutto, cosa inedita, hanno sfornato una serie di videoclip e visual in abbinamento alle canzoni dell’album.

Con le sue 58 mila copie vendute, Gigaton si è trovato a fungere da balsamo nella più surreale situazione d’isolamento che l’umanità abbia conosciuto: una sorta di grido primordiale da emettere durante il lockdown, tra un canto collettivo dai balconi e l’altro, quando si pensava di uscirne (migliori).

«For this is no time for depression or self-indulgent hesitance / This fucked-up situation calls for all hands, hands on deck» — andrà tutto bene (forse).

Given to vote

Era l’ottobre del 1990 quando – con il nome di Mookie BlaylockEddie Vedder, Stone Gossard, Jeff Ament, Mike McCready e il batterista di allora Dave Krusen tenevano il loro primissimo live in un locale di Seattle, in apertura agli Alice in Chains. Evento che fa cadere in questo annus horribilis il loro trentesimo anniversario. Proprio quest’anno doveva esserci un tour mondiale a supporto di Gigaton. E invece, nisba: tutto posticipato al 2021, allorché, non sarà più il tour di Gigaton, bensì il tour e basta. Quello della riscossa. Quello della fine del tunnel. Per certi versi, un po’ come il primo tour dopo Roskilde.

E dunque, senza più concerti in vista e chiuso in casa come tutti, cosa poteva fare Eddie Vedder? Ha parlato e suonato da casa sua. E non poco. Non c’è infatti, a memoria d’uomo, un periodo in cui, travolto da una sorta di jovanottiana energia cosmica, si sia concesso così tanto: interviste, partecipazioni a podcast, radio show, festival, set acustici “at home” (uno addirittura per i dipendenti Amazon)

Soprattutto però, ha fatto qualcosa che fino a pochi mesi fa sembrava impossibile. Si è aperto un profilo Instagram.

«Ciao, sono Eddie Vedder e adesso vi canto una cosetta».

Orfani della loro attività primaria, i Pearl Jam – per cui la parola “resilienza” non è solo un orpello linguistico da infilare nelle conversazioni – hanno rincarato la dose su un altro fronte: il supporto a un candidato democratico. Nella fattispecie, questo il traguardo da raggiungere: aiutare Joe Biden a diventare il prossimo presidente degli USA.

Partendo dal loro noto orientamento Dem, dal loro attivismo e dalla loro spropositata fanbase, la band ha messo in piedi un’operazione denominata PJ Votes 2020 – Take Three Pledge, ossia una piattaforma sul sito ufficiale che permette ai fan di registrarsi al voto (anche tramite sms) per poi esprimere la propria preferenza via posta, attraverso la scheda elettorale nominale che arriva direttamente a casa, il cosiddetto ballott – un metodo alternativo, e al momento più sicuro.

D’altra parte – per i Pearl Jam, così come per molte altre star internazionali – questa tornata elettorale non è uguale alle altre: è un’occasione irripetibile per togliersi di torno The Donald, e porre fine all’era più buia che gli USA abbiano visto. E il ragionamento alla base dell’operazione è semplice:

Se siamo una band che ha successo nei cosiddetti “Swing States” (Florida, Texas, Pennsylvania, Michigan e le ex roccaforti industriali in declino, dove gli elettori indecisi hanno un peso enorme – NdA), significa che non suoniamo solo per un pubblico di progressisti, e che negli stati "in bilico", abbiamo molto lavoro da fare. (Eddie Vedder)
Porta un amico e scopri i vantaggi.

Non è certo una novità che grandi personalità della musica e dello sport americano generino consenso elettorale attraverso le loro piattaforme, ma i PJ hanno fatto un passo in più. PJ Votes 2020 è un’operazione sviluppata con l’ausilio di esperti comunicatori politici: Whitney Williams, ex candidato governatore del Montana, il gruppo civico Make the Road Pennsylvania (Stato chiave in questa tornata elettorale) e la fondazione People for the American Way. L’operazione prevede tre step:

  1. vota via posta
  2. convinci tre amici a fare lo stesso
  3. non aspettare

In pratica, la versione evoluta della sempreverde formula “porta un amico” in palestra, con l’aggiunta dell’invito a essere un early voter, cioè esprimere la propria preferenza in anticipo, in modo da non votare in massa durante la tornata elettorale.

Nel caso la procedura di voto non fosse abbastanza chiara, c’è Eddie in persona che la spiega.

Da notare, infine, un particolare tutt’altro che trascurabile in qualunque campagna elettorale moderna: i Pearl Jam si sono registrati come sponsor politico su Facebook, spendendo più di 17 mila dollari in inserzioni targhettizzate solo nella seconda settimana da ottobre.

Nel frattempo abbiamo già raggiunto quota 60 mila.

Fan di chi?

L’attivismo dei Pearl Jam dovrebbe essere cosa nota tra i fan. Invece non è così.

Fin da giovane, Vedder, sicuramente non un entusiasta dello status di rockstar, ha sempre cercato il modo di agire sul cambiamento, facendo leva sul proprio successo. Sensibile a un’ampia serie di tematiche, si è cucito addosso, negli anni, l’immagine dell’eterno corrucciato del rock.

La fame nel mondo, la solitudine dell’essere umano, la proliferazione di armi, le catastrofi ambientali, il suprematismo bianco, l’antiabortismo, i repubblicani, Ticketmaster: sono solo alcune delle questioni spinose che Super Vedder ha sempre cercato di combattere nella sua lunga carriera. Cose che hanno compromesso anche rapporti personali e professionali (vedi il compianto ex batterista Dave Abbruzzese, reo di avere il porto d’armi e di apprezzare tutto quel che la vita da rockstar porta con sé). Ma certo non con i restanti compagni di band: vuoi per le radici punk, vuoi per il fatto di essere cresciuti artisticamente in una roccaforte democratica e dalla forte matrice attivista come Seattle, loro sono sempre stati una valida spalla per tutta una serie di cause che, negli anni, i PJ hanno servito, soprattutto grazie a quell’enorme macchina della beneficenza che è la Vitalogy Foundation.

Eppure, se vi è capitato di affrontare una qualsiasi discussione sui Pearl Jam che non riguardasse i temi più caldi – cose come: quanto siano peggiorati dopo Yield, quanto Vedder sia imborghesito e al servizio dei #poteriforti, se Vedder e Cobain si odiassero davvero – sicuramente avrete sentito spesso dichiarare che «i Pearl Jam dovrebbero pensare a fare musica e non schierarsi politicamente». In molti casi, quest’osservazione arriva da fan che si definiscono “della prima ora” e sinceramente vien da chiedersi, anche con una certa naturalezza, quale band abbiano ascoltato fino a oggi. Cosa li avrà mai spinti a spendersi tredicesime, quattordicesime e liquidazioni per seguire i loro eroi in giro per il mondo, se ancora pensano che quegli eroi farebbero meglio a rinunciare a qualunque connotazione politica.

Quella è una maschera di George W. Bush, e non sta lì per un endorsement.

The Clinton Years

Nel novembre del 1992 – anno delle presidenziali USA che videro contrapposti George W. Bush, Ross Perot e Bill Clinton (poi vincitore) – i Pearl Jam, all’inizio della loro carriera ma già con una gran risonanza, organizzarono a Seattle un evento live ribattezzato Drop in the Park (con loro c’erano i Seaweed e niente meno che i Cypress Hill). Vedder e la band erano consapevoli del fatto che, in quel periodo, il 65% dei giovani americani al di sotto dei 25 anni non votava. Non per nulla, l’evento faceva parte di un progetto ben più ampio denominato Rock the Vote, organizzazione no profit (supportata da MTV) per sensibilizzare i più giovani sulla questione e accrescere la loro influenza in ambito politico.

Questo spot girava su MTV.

Per non parlare poi del suo coinvolgimento nell’operazione Voters for Choice, la campagna pro-abortista ideata dalla femminista Gloria Steinem nel 1995, cui presero parte anche Neil Young, le L7 e Lisa Germano – un evento che nacque come reazione a un orrendo fatto di cronaca: l’omicidio di due ragazze all’interno di una clinica abortiva nel Massachussetts.

Poiché si trattava di concerti di beneficenza, i Pearl Jam riuscirono però a fare quel che più amavano: scavallare Ticketmaster e fare la prevendita dei biglietti attraverso le schedine della lotteria. Fu comunque un evento memorabile per Eddie: la libertà riproduttiva è un’altra delle questioni che ha molto a cuore. Anche se mai quanto sta a cuore a Jennifer Finch, che quella sera invitò tutti a mettersi una mano nelle mutande, riassumendo il concetto con parole chiare:

Ricordati, quella è roba tua e nessuno può dirti cosa farne. (Jennifer Finch)

Questo con buona pace di chi sostiene che il movimento grunge fosse privo di riferimenti politici o spirito di attivismo. Ma non divaghiamo.

«She had little chance to make good / Treats them now, she's young / But it can be taken away / Just one time around, can be taken away / We all make mistakes».

C’è un altro episodio, però, che, più di altri, dovrebbe essere illuminante per chi sostiene che i Pearl Jam e la politica fossero due realtà distinte.

Nel giorno in cui Kurt Cobain fu trovato morto nella sua villa di Seattle, nel marzo del 1994, i Pearl Jam erano nella fase finale del tour dell’album Vs. e si trovavano a Washington. Il giorno dopo il fattaccio, avevano in programma una visita alla Casa Bianca per incontrare il presidente, insieme al giornalista George Stephanopoulos. Il motivo della loro visita, essenzialmente, era che Chelsea Clinton, la figlia di Bill, era una grande fan della band. Avrebbe voluto tanto andare a un loro concerto, ma Hillary preferiva di no: era ancora troppo giovane. E allora Bill le aveva portato Eddie a casa.

Dopo alcune foto di rito nell’emblematico Studio Ovale, Clinton chiese di avere un colloquio faccia a faccia solo con Vedder. Aveva bisogno di confrontarsi con lui sulla morte di Cobain. Gli chiese se, secondo lui, fosse il caso di fare un discorso alla nazione. Vedder rispose che no, non era il caso. Temeva l’effetto emulazione, ed era dell’idea che un intervento pubblico del capo di stato USA avrebbe acceso ulteriormente i riflettori su quel drammatico episodio, per il quale lui stesso stava soffrendo e faticava a metabolizzare.

John Hoyt, allora consulente politico dei Pearl Jam, ricorda che, nel lasciare lo studio, Vedder si rivolse a Clinton dicendo: «Ciao Bill, ci vediamo».

Lo Studio Ovale ha fatto anche cose buone.

The Pavone Incident

Non è un mistero che, per smuovere certe montagne, occorra smuovere molti soldi. I Pearl Jam, attraverso la Vitalogy Foundation, da cui dipendono altre sub-fondazioni che fanno capo ad altri membri della band, raccolgono da anni somme ingenti per ogni causa possibile: dalla costruzione di uno skate park in Montana, al supporto della ricerca per il morbo di Crohn (patologia di cui soffre il chitarrista della band, Mike McCready), dalla raccolta di fondi per un candidato Dem a quella che serve per dare una casa nuova alla mamma di Andy Wood. Nell’estate del 2018, attraverso due concerti denominati The Home Shows, la band ha raccolto 11 milioni di dollari per le associazioni che si occupano dei senzatetto di Seattle – una piaga, quella degli homeless, in spaventosa ascesa da quelle parti, a causa dello stradominio di Amazon.

Ma Vedder mica si cruccia solo per i mali di casa sua. Da sempre, si interessa alle tematiche dominanti di ogni singolo paese in cui suona, per poi magari farne argomento di discussione durante il concerto. Un’ abitudine che, sempre nel 2018, ha causato un surreale e indimenticabile beef tra i Pearl Jam e Rita Pavone (sì, proprio lei – avete capito bene) sull’annosa vicenda della nave Aquarius. In pratica, all’Olimpico di Roma, durante una cover di Imagine di Lennon, su un megaschermo è comparsa l’immagine di un salvagente con gli hashtag #apriteiporti e #saveisnotacrime. La Rita nazionale, supportata dal fronte salviniano, non fece mancare la sua reazione.

"Who the f**k is Rita Pavone?!"

Da Obama a Trump

Ma il 2018 sembra ormai vent’anni fa e niente è più come prima.

E se Gigaton è un album dal decorso strambo, non è solo per via del COVID, ma senz’altro anche a causa del periodo presidenziale in cui è stato partorito. È infatti il primo album della band uscito in fase trumpiana. Il precedente, Lightning Bolt, uscì in fase obamiana. Senza dubbio, la preferita della band.

Vedder, in effetti, si spese molto per Barack Obama, con cui aveva (e ha) uno stretto legame d’amicizia, tanto da suonare per lui in ben due occasioni: un pranzo di beneficenza organizzato a Tampa, Florida, nel 2012 (per finanziare la campagna elettorale di un suo secondo mandato) e al concerto di fine presidenza.

«Cosa sarebbe questo aggeggio?»

Ora che si paventa un’occasione di mandare a casa il buon Donald, la band ha deciso di scendere in campo davvero, cercando di cambiare il corso della storia, e spendendosi per l’accoppiata Joe Biden / Kamala Harris. A conferma della sua reale presenza nel dibattito elettorale, a venti giorni dal voto, la band (senza il batterista Matt Cameron) ha addirittura partecipato a un talk in streaming con Dough Emhoff (noto avvocato californiano e marito della Harris) e Jill Biden (moglie di Joe, appunto) per discutere di attivismo, diritto al voto, e contatto umano in tempi di COVID-19.

E non è nemmeno la prima volta. Vedder ha supportato in passato altri candidati presidenziali. Nel 2000 partecipò a una serie di tappe elettorali dell’allora candidato del Green Party Ralph Nader e nel 2004 l’intera band si unì a Bruce Springsteen, i R.E.M., Neil Young e le Dixie Chicks nell’operazione Vote for Change, a supporto del candidato democratico John Kerry.

A ben vedere, una lunga lista di sconfitte che potrebbe portare qualcuno ad argomentare cinicamente che tutti quelli per cui i Pearl Jam si sono spesi hanno perso. Fino a oggi almeno. Perché, come si deduce dagli esiti elettorali, il trend pare si stia invertendo.

Al punto che ce la sentiamo di sbilanciarci e dire: ricordatevi di questo articolo quando, tra qualche anno, Vedder si candiderà alle primarie Dem.

Prendersi i meriti, con modestia.

Eddie Vedder Pearl Jam 

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