I due folli di Atlanta non hanno (quasi) mai sbagliato un disco. Hanno prima elevato l’hip hop ad arte e poi lo hanno contaminato con qualsiasi altra cosa, per venderlo alla fine a MTV, contribuendo così a renderlo il genere musicale pop che è oggi. Sono stati pionieri in tutto, dalla tecnica alle produzioni, ai testi. Hanno abbattuto limiti, confini e stereotipi. Sempre e comunque a modo loro.
Ok, il titolo è dichiaratamente provocatorio. Nessuno nega che nella lunga storia della musica hip hop di gruppi altrettanto – se non più – importanti ce ne siano stati, almeno per quanto riguarda una filologia più tradizionale (dai Public Enemy al Wu-Tang Clan, ma si potrebbe proseguire all’infinito). Eppure non è poi così sbagliato parlare del duo di Atlanta come del più importante di tutti in un certo senso. Ma poi, che vuol dire “importante”?
André 3000 e Big Boi, con le dovute proporzioni, hanno avuto sull’hip hop un impatto simile a quello di Thom Yorke e soci su un generico concetto di rock, per diversi motivi. Anzitutto per la qualità: come per la band di Oxford, è veramente difficile trovare un album firmato dal duo di East Point che sia anche solo poco meno di ottimo, e la maggior parte sono proprio dei capolavori. Gli Outkast hanno all’attivo cinque dischi incredibili, a fronte di uno (il canto del cigno Idlewild) solamente discreto e tutto sommato dimenticabile. Per i Radiohead il discorso è inverso: dopo il claudicante Pablo Honey, è stata una scalata unica.
Altra analogia: la carriera di entrambi i gruppi può essere distinta in due fasi. Quella iniziale (hip hop per gli Outkast, rock per i Radiohead) e quella successiva a una svolta inaspettata. Per la band inglese è stata l’elettronica di Kid A, per i due di Atlanta la psichedelia black di Aquemini. In entrambi i casi, il disco-emblema che ne ha ricalibrato le coordinate stilistiche non è stata una creazione ex novo, ma una rivoluzione di sincresi. I Radiohead hanno portato l’elettronica bianca di Aphex Twin, Autechre, Boards of Canada e compagnia Warp nel salotto del rock – oltre al funk robotico dei Talking Heads e al jazz. Gli Outkast hanno spalancato le porte dell’hip hop a un black continuum fatto di funk psichedelico, soul, jazz, r&b, rock e perfino elettronica da (s)ballo. In quest’ultimo senso hanno rappresentato il ponte più diretto con pionieri come Afrika Bambaataa, che oltre un decennio prima di loro shakerava Kraftwerk e hip hop.
In pratica, se i Radiohead hanno traghettato con sé molti ascoltatori dal palato tradizionalmente più rock, accompagnandoli verso lidi più sintetici, gli Outkast hanno fatto lo stesso con l’hip hop, e hanno operato anche nel senso inverso: la hit Hey Ya!, con i suoi passaggi su MTV reiterati fino alla nausea, ha fatto scoprire il genere a un sacco di gente, un po’ sulla falsariga di quanto faceva Eminem nello stesso periodo (parliamo del 2003).
Insomma, nell’ottica del processo di pop-izzazione dell’hip hop che ha caratterizzato l’ultimo ventennio – se non trentennio – hanno svolto un ruolo fondamentale (di cui Hey Ya! è solo la proverbiale punta dell’iceberg). Ma facciamo un passo indietro.
Siamo nella prima metà degli anni Novanta, e gli Organized Noize sono uno dei team di produttori più promettenti sulla piazza di Atlanta. Che è dire tutto e niente al tempo, visto che l’hip hop che conta si muove su ben altre coordinate: siamo nel pieno della faida tra East e West Coast, su un asse che va da New York a Los Angeles senza grosse variazioni. Un modo gentile per sottolineare che di quel che succede nel Sud degli USA non frega niente a nessuno in tutto il resto d’America. Sì, c’era stato già qualche colpo battuto da gente come Geto Boys e Scarface dai sobborghi di Houston, ma era musica che – per quanto già buona – era ancora troppo legata ai soliti due stereotipi di cui sopra: West o East.
Ma torniamo agli Organized Noize: il gruppo è alla ricerca di un MC che possa buttare qualche rima sulle loro produzioni. Trovano la soluzione a tutti i loro problemi in due sbarbatelli che vanno ancora al liceo: Big Boi e André 3000 (secondo i nomi d’arte che adotteranno in futuro). La coppia pare l’incarnazione dell’hip hop stesso: un’abilità incredibile nel freestyle e la capacità di intrecciare rime su rime senza mai doversi fermare. Non solo – scrivono divinamente, tra metafore, punchlines e giochi di parole divertentissimi e mai banali. La fucina creativa di questo nuovo progetto diventa il Dungeon, in pratica uno scantinato devastato dal disagio dove la crew si ritrova per sfondarsi di canne e registrare.
La squadra è pronta e scalda i motori con Player’s Ball, un improbabile singolo di Natale in cui i due ribaltano tutti gli stereotipi di rito e descrivono la festività per come viene vissuta nel ghetto. «Ain’t no chimneys in the ghetto so I won’t be hanging my socks» è una delle barre più superbe di sempre, ma in generale tutto il pezzo è un capolavoro.
Sull’onda di questo quasi inaspettato successo arriva il primo album Southernplayalisticadillacmuzik, una roba pazzesca per due esordienti. Le produzioni ON sono fighissime ma restano in orbita West Coast. Si sente che questo è un disco prodotto e registrato a pochi anni da The Chronic di Dr. Dre, quindi piglio laid back e G-funk a quintalate. Insomma, non c’è ancora uno stile personale al 100% da un punto di vista musicale. Eppure – fatto salvo per qualche perdonabile ingenuità qua e là – il rap dei due giovani protagonisti è già incredibile. In questo senso l’album riesce a restituire perfettamente la bravura di André e Big Boi nell’incastrare rime a ripetizione.
Già al secondo lavoro gli Outkast mostrano però che l’hip hop tende a stargli stretto. ATLiens (dove “ATL” sta ovviamente per Atlanta) è – proseguendo nel nostro ardito parallelo – il loro OK Computer. Restano il rap fulgidissimo, le melodie rilassate e il piglio smooth dell’esordio, ma cambia tutto il resto e iniziano le sperimentazioni. È un disco spaziale, in ogni senso. Bassi massaggianti e coretti soul, ritmi ipnotici e synth provenienti da qualche galassia lontana. Ogni pezzo è una scoperta, e il disco resta storto e inzuppato di THC fino alle ossa.
Insomma, gli Outkast iniziano a suonare esattamente come… gli Outkast, e nessun altro. Così mettono una prima e fondamentale bandierina nel cammino di emancipazione del southern hip hop nei confronti di modelli già affermati. ATLiens resta il disco del gruppo più amato dagli appassionati di hip hop duri e puri, perché è ancora “HH” in senso stretto.
Eppure sotto la superficie si agitano già inquieti i germi del cambiamento.
Dal terzo disco in poi gli Outkast spalancano definitivamente le gabbie della loro creatività, e prendono l’hip hop per spupazzarselo come forse mai prima d’ora: lo aprono, lo girano e lo rivoltano, lo insozzano e lo svendono, lo contaminano e lo imbastardiscono ibridandolo con praticamente qualsiasi cosa. In Aquemini si avvicinano pericolosamente all’opera d’arte totale: parliamo di un disco che se – come già detto – è il loro Kid A per rivoluzione stilistica, è anche il loro The Dark Side of the Moon per l’esperienza quasi cinematica che rappresenta, antesignano di lavori fondamentali per capire l’Oggi come My Beautiful Dark Twisted Fantasy di Kanye West o To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar (ok, mettiamoci pure Astroworld di Travis Scott). Dischi dove gli autori esulano dalla dimensione del puro musicista per abbracciare quella più totale di curatore artistico. Aquemini prende i Fugees e li chiude in camera con George Clinton, poi passa al reggae, allo swing, al rock, frulla tutto e risputa un bolo mezzo masticato ormai inestricabile.
Ancora oltre si spingeranno con Stankonia nel 2000: un laboratorio creativo in cui convivono le cose più disparate e interessanti – senza per questo mancare mai di coerenza – ma anche la prima vera e propria sbragata commerciale del duo. Il disco vende tantissimo, e contiene pezzi radiofonici che sono puro e semplice pop (la hit Mrs. Jackson su tutti), anche se di quello buono.
Non che tutto ciò debba per forza essere visto come una cosa negativa, anzi: questo è anche l’album in cui si raggiunge l’equilibrio migliore tra esiti artistici e appetibilità mainstream. Perché, dicevamo, man mano che la scaletta procede passa veramente di tutto tra le orecchie. C’è Jimi Hendrix e ci sono i Parliament, ci sono gospel, doo-wop, soul e proto-trap. Soprattutto, ci sono pezzi come B.O.B. in cui i due alzano i BPM ad altezze inusuali per il genere, rappando addirittura su ritmiche jungle: è l’attestato del legame tra hip hop e rave culture di cui parlavamo in apertura.
Le vendite – non è un caso – aumenteranno ancora con Speakerboxxx / The Love Below del 2003: un monumentale doppio album in cui l’orecchiabilità (sempre e comunque colta) la fa da padrona assoluta. Prima parte più canonica, seconda più coraggiosa, si tratta di un compendio omnicomprensivo e aggiornato di tutta la musica black – dal jazz al soul, dal funk al blues, dall’hip hop all’R&B. Si insegue Prince così come Marvin Gaye, i Funkadelic come John Lee Hooker. È un’opera monstre e spesso dispersiva (39 tracce farcite di intro, skits, interludi e outro – decisamente troppo), ma fa parte del gioco.
Insomma: da Aquemini in poi i due hanno scavallato definitivamente il crinale dell’hip hop, e ancora prima quello del gangsta rap. Parte fondamentale della loro importanza – forse anche di più della bulimia musicale – è stata la capacità di inventare un’alternativa degna e valida ai clichés imperanti nell’hip hop a loro contemporaneo. Laddove MTV propinava 50 Cent e il machismo ottuso tutto catenone-macchinone-pistole-culi di quella fetta, vedere André 3000 che ballava in camicia verde con la sua band di sosia era qualcosa di radicalmente diverso, ma proveniente dallo stesso calderone musicale.
In questo senso la metamorfosi pop degli Outkast è stata legittimata da due aspetti: la credibilità che si erano guadagnati nel loro mondo grazie ai primi due dischi, e la bontà qualitativa del nuovo materiale, che continuava a sperimentare anche quando strizzava l’occhio al mainstream. Hey Ya! è un pezzo solare, contagioso e groovy, con un ritornello appiccicoso che ha finito con l’essere odiato da tanti talebani rappusi, gente che ne identificava i passaggi in radio con la svendita definitiva di quello che era uno dei più grandi gruppi hip hop di sempre. Invece è un testo triste e disilluso, che parla di un rapporto incapace di restare sincero e di immaginarsi un futuro («Y’all don’t want to hear me, you just want to dance»), dove l’allegria superficiale del pezzo si rivela solo uno specchietto per le allodole.
Ma la distanza di André 3000 e Big Boi dagli stereotipi più stantii dell’hip hop – e anche da tantissime cose uscite dal Dirty South, ora come allora – non è stata solo musicale. Uno dei temi più problematici (da sempre) nel rap è quello della donna oggetto. Anche qui, i due Outkast sono stati degli innovatori. Nei loro testi – che pure parlano di sesso al 90% – la figura femminile non è quasi mai oggettivata, ma è vista come essere umano. Un pezzo come I’ll Call B4 I Cum – fin nella sua grettezza espressiva – fa una cosa che per il rap americano è una piccola rivoluzione copernicana: mette le necessità sessuali della donna avanti a quelle dell’uomo. Difficile che sia preso come testo sacro dalle femministe più agguerrite, ma è comunque una mosca bianca in un infinito sciame di altri interpreti che hanno trattato l’altro sesso sempre e solo come un buco da riempire per soddisfare il rapper di turno.
E c’è un’ultima cosa, per concludere. Il merito di aver portato alla definitiva evoluzione il dualismo interno che avevano iniziato i Public Enemy. Se là c’erano Chuck D il guru e Flavor Flav il clown, qui abbiamo Big Boi abilissimo paroliere e legame con l’hip hop che sempre e comunque resta (anche se via via più sullo sfondo), e André 3000 il mistico, il filosofo, il genio imprendibile e l’innovatore.
La narrazione più semplicistica vende il primo come quello più ancorato alla tradizione, più conservatore – cosa non del tutto vera, e basta ascoltare i dischi – e il secondo come la scheggia impazzita costantemente in procinto di strabordare. Ammesso di accettare questa lettura facile, il fatto è che per una volta gli attriti tra le due anime – comunque ogni volta più evidenti man mano che i dischi uscivano – sono sempre diventati pretesto creativo per fare qualcosa di nuovo. Perché è vero che per esempio The Speakerboxxx / The Love Below è un doppio per cause di forza maggiore (nel senso che è di fatto composto da due album solisti separati), ma è altrettanto innegabile che il disco esce comunque a nome Outkast. Vale a dire: anche quando le divergenze artistiche portano all’incomunicabilità, il nucleo resta unito, e con lui l’intento ultimo.
Vedendola da questo lato (ma non solo da questo, in realtà), il seguito che viene dopo Public Enemy e Outkast si chiama Run the Jewels. E non a caso Killer Mike non ha mai negato di aver iniziato a farsi le ossa proprio comparendo in Stankonia. Ma questa è un’altra storia. Eppure chissà, magari tra qualche anno potremo scrivere un altro articolo intitolato come questo, con i RTJ per protagonisti.