Chiamatela come vi pare, dopotutto le etichette servono per gli espositori dei negozi e gli scaffali del salotto. Quello che conta è abbandonarsi a un’elettronica calda e umana come poche altre. La musica dei Kraftwerk tradotta per le orecchie della nuova “old skool”. La musica di Phil e Paul Hartnoll.
Non vogliamo diventare i Rolling Stones della techno.
Tranquilli, fratelli Hartnoll: non è successo. Né potrà mai succedere e, se proprio deve, il riferimento sarà (grazie al cielo) ai Rolling Stones prima che diventassero un brand. Certo, poteva andare peggio e infatti la stampa britannica vi ha etichettato con scarsa fantasia «i Gallagher della dance».
Le cose per fortuna stanno molto diversamente: a soppesare il loro tragitto e riascoltarsi i dischi, sono altri i paragoni che sovvengono. Soprattutto alla luce di In Sides e del quarto di secolo che non dimostra, immagini gli Orbital come dei Dr. Who con lo spirito di Joe Meek applicato alla modernità. Meglio ancora: i Kraftwerk di oggi, però consanguinei. Con tutto quel che ne consegue in termini di anime che dialogano conferendo alla musica spessore, umanità e intelligenza.
Eccoci al punto: abbiamo sempre trovato fastidiosa la definizione di intelligent dance music, coniata nei primi anni Novanta per incasellare i Future Sound of London e presto estesa a Black Dog, Autechre, LFO, Aphex Twin e agli stessi Orbital. Prevedibilmente, in molti hanno scatarrato a più riprese e con piena ragione su un termine che, pur con tutte le buone intenzioni, pare una forma di razzismo culturale, un pretenzioso escludere il corpo a favore della mente quando le musiche migliori fondono entrambe. Da seguaci di George Clinton, per noi vale la massima:
Libera la mentre e il culo la seguirà.
Può insomma esistere una dance cerebrale che trattenga la fisicità e che si possa ascoltare e ballare. Che sia alternativa a ogni luogo comune, sfaccettata e sparga adrenalina pura e intuizioni brillanti. Proiettata verso il futuro, ma pur sempre consapevole che le sue radici si trovano anche nell’acid house e nei capannoni dove in piena (chiamiamola così) “estasi” si celebrava la seconda estate dell’amore. Sull’onda della quale gente come Orb e KLF incastrava rimasugli psichedelici e ambient, puntando l’ora tarda in cui torni dal club felice e incuriosito.
Per questo la definizione art techno pare confezionata su misura per gli Orbital. Se proprio si deve ricorrere a uno scomparto, che sia questo, perché sin dai primi passi i due hanno tenuto un piede dentro e l’altro fuori dalla dance con un misto di esaltazione, ironia e malinconia sottile. Meno astratti dei nomi coccolati dalla critica e ciò nonostante distanti anni luce dal “balla-e-getta”, nel primo poker di album sono sempre andati a segno. Della querelle di cui sopra, gli è importato zero virgola zero, concentrati com’erano sulla costruzione di cattedrali articolate e complesse che si sviluppano con estrema naturalezza.
Che musiche così vive convincano a un livello sia fisico che mentale è l’ennesimo attestato del genio che ne è all’origine. Lo stesso dicasi per concerti nei quali si suona per davvero, trincerati dietro muri di apparecchiature con le caratteristiche lucine attaccate alla testa per riversare sugli astanti uno spettacolo suggestivo come pochi altri. A proprio agio tra le stanze della dance oltranzista e nell’arena rock, gli Orbital hanno propulso fuori dal contesto comunque vastissimo e multiforme dell’elettronica una musica che non conosce frontiere.
Come del resto era quella consumata in età formativa, dal punk e l’electro a tutto quanto suscitava un abbandono dionisiaco nelle feste clandestine tenute attorno alla M25. Nota anche come M25 corridor oppure – bingo! – London Orbital, l’anello di quasi duecento chilometri che circonda la capitale è il secondo raccordo anulare più esteso d’Europa, battuto in lunghezza soltanto dalla A10 di Berlino. Guarda caso, un’altra città fondamentale per la cultura dance. Wir fahren auf der Autobahn.
Si dice che chi parte da lontano, arrivi lontano. Vale eccome per Phil (classe 1964) e Paul (di quattro anni più giovane) Hartnoll da Sevenoaks, Kent. Uno fa il muratore e l’altro suonicchia in una band, eppure sentono che i tempi stanno cambiando. Nel 1987 cominciano a industriarsi con un registratore a quattro tracce, una drum machine e qualche tastiera, mettendoci passione e inventiva sufficienti a far sì che Chime (prima incisione costata due sterline e mezzo: punk, come il frammento dei Crass che contiene) piaccia al programma radiofonico Jackin’ Zone di Michael “Jazzy M” Schiniou. Un paio di annetti ed esce un singolo per il marchio da lui gestito, Oh-Zone. Cinquecento copie vanno esaurite in un pomeriggio, la FFRR viene a saperlo e si assicura i diritti di ristampa ingaggiando quelli che si sono battezzati Orbital in omaggio alla suddetta tangenziale.
Nel marzo 1990, sganciandosi dalla ridondanza e dai 4/4 imperanti, il groove stranito però irresistibile di Chime irrompe sul fondo dei Top 20 nazionali. La creatura inizia a camminare in scia a un classico immediato, benché la bizzarra Omen e l’hip hop tec(h)nologizzato di Satan si fermino più indietro. Nessun problema: importa che l’unicità emerga dal sample dei Butthole Surfers che apre la seconda e da un album omonimo (detto “verde” o “giallo” per il colore della copertina) pubblicato a fine estate ‘91. Oltre ai ripescaggi di Chime e Satan, piacciono l’estatica Belfast e il cyber-gamelan The Moebius, l’enigmatica kraut-house di Fahrenheit 3D3 e un’esotica Desert Storm con qualcosa dei Can, l’ipnosi Oolaa e una Midnight maestosamente sensuale. Il segnale è lanciato tra ritmi implacabili, cantabilità che emerge alla distanza e una disinvoltura da acrobati esperti.
La medesima impressione si ricava nel ’92 dall’EP Radiccio, che accede ai Top 40 recando la griffe della Internal. Il distacco dalla scena rave trova un primo completamento a metà 1993, con un altro disco privo di titolo e di conseguenza chiamato “brown”. Fedeli alla loro linea, gli Orbital non concedono nulla alla banalità né ai concettualismi in una scaletta che, aperta da una frase di Star Trek mandata in loop fino a snervare, trascina nei vortici di una techno elegante e arguta. Come quadri di Escher, tessiture di sintetizzatori e melodie si rincorrono su un telaio ritmico fantasioso tracciando geometrie che considerano i Kraftwerk un punto di partenza. Menzione d’obbligo per la caleidoscopica psichedelia di Planet of the Shapes, la circolarità sinuosa su beat d’assalto di Lush 3-1 e Lush 3-2, l’etnica da laboratorio di Walk Now…, una Impact (The Earth Is Burning) screziata di funk elettrico, il sublime rapimento Halcyon and On and On.
Sistemato un paletto, i fratelli conquistano l’America con Moby e Aphex Twin. Nel ‘94 Snivilization accoglie Alison Goldfrapp al microfono e conferma l’alterità nella jungle venata d’oriente e shoegaze di Are We Here? e nelle policromie in jazz astrale di Forever, in una Sad but True da scatenare l’invidia di Björk e negli astrattismi di I Wish I Had Duck Feet, Science Friction e Philosophy by Numbers. A rendere in pieno la portata del salto, però, sono l’autorevole ossequio ai Cluster di Kein Trink Wasser e l’oceano ambient di Attached. Stanno qui i semi di In Sides, che nel 1996 trasforma il cerchio in una “O” di Giotto.
La mossa è preparata con estrema cura. Dapprima presenziando a Glastonbury e al Tribal Gathering per sottolineare il ruolo di cerniera tra il pop prefissato “indie” e l’elettronica danzabile. Poi, indicando una terza via tra avanguardia e successo di massa allorché il sottobosco rave conquista il mainstream e Leftfield, Underworld, Chemical Brothers e compagnia portano l’innovazione in classifica. A caratterizzare gli anni Novanta è un pulsare di contaminazioni dove gli Hartnoll hanno finora recitato da primi attori. Attori che adesso si apprestano a entrare nell’eternità a modo loro, le idee chiare più che mai.
Per chi si è costruito fama e apprezzamento anche sull’impatto live, un tour che visita la Royal Albert Hall ha il profumo della svolta. Due mesi dopo, pesanti tonfi di mascelle accolgono The Box, il suo dulcimer in stile John Barry innestato su un mosaico poliritmico memore di Steve Reich e il video in cui Tilda Swinton si aggira in scenari ballardiani. Come a dire che rugiada e microchip hanno sostituito sudore ed ecstasy. Come a dire: meraviglia.
Nell’aprile 1996, In Sides stupisce con umori riflessivi e un preciso manifesto estetico. Dopo aver spiegato che è possibile pensare e ballare, gli Orbital trattano la danza come un accessorio e non più come un mezzo.
A trasmettere messaggi da interpretare provvede una quiete che, in ipotetico contrasto con la lavorazione avvenuta nel centro di Londra, concede squisite malinconie agresti. In realtà, la frenesia della metropoli e l’arcadia della mente sono fatte apposta per fondersi in qualcosa di superiore, poggiato su un metodo compositivo ed esecutivo che sfrutta il caso e su un ibrido tra piena modernità e un passato confortevole. Parlano chiaro l’uso di un computer Apple, del software Logic Audio e del campionatore E-mu Emax accanto a svariate tastiere analogiche. E siccome il ritmo è fondamentale, la mitica Roland TR-808 interagisce con un batterista in carne e ossa.
Sintetico e organico confluiscono così in un capolavoro che abbraccia consapevolezze ambientaliste suggerendo film per l’anima ancora da girare e miraggi in cui calarsi per non tornare più. Guarda caso, l’ispirazione di The Box trae origine da un sogno ricorrente nel quale Paul trova una scatola di legno in campagna ma si risveglia al momento di aprirla. Storia autentica o meno, il contenuto destinato a restare misterioso disegna la perfetta metafora di un’estetica dove il percorso conta più del punto d’arrivo.
Entrambi gli aspetti finiscono per confondersi in una bellezza multiforme che muta lo spazio circostante, come rivela l’iniziale The Girl with the Sun in Her Head. Incisa con il generatore a energia solare di Greenpeace, è dedicata all’amica fotografa Sally Harding, all’epoca scomparsa da poco: significativamente, un pulsante, umanissimo cuore sintetico costituisce l’architrave di leggiadre movenze post-funk al gusto di silicio e caramello. Le replica P.E.T.R.O.L., articolando la febbre ansiogena di WipEout – il gioco da PlayStation per il quale è stata commissionata – con stravaganze percussive ed effettistiche e la vena retro-futurista che ricorre anche altrove.
Ad esempio nei gioielli Adnan’s, reticolo di toni sgranati e ipnagogici che apparterranno ai Boards of Canada, e Dŵr Budr, dove Goldfrapp canta in reverse parole inventate su panorami che piacerebbero a Ralf Hütter e Florian Schneider. In gallese il titolo significa “acqua sporca” e si riferisce a un disastro avvenuto sulla costa meridionale del paese, sottolineando che un altro mondo verde non è più possibile. Che, forse, ha più senso illudersi di invocare gli alieni come dei messia nelle due parti complementari di Out There Somewhere?, slanciata dilatazione acid-housedelica che chiude il disco riassumendone tematiche e linguaggi e trasformando la fantascienza in filosofia.
Manco a dirlo, In Sides vende benissimo, incontra il plauso della stampa specializzata e soprattutto delle riviste tradizionali. Strada in discesa, da qui: esaurita la loro funzione primaria e raggiunta una vetta irripetibile, gli Hartnoll centrano un clamore su scala ancor più ampia passando dalle colonne sonore virtuali a quelle autentiche con la cover del tema di Il Santo.
La maturità d’autore appartiene a un altro mazzetto di dischi meno memorabili, figli di un’ispirazione altalenante – tranne il bagliore Wonky del 2012 – e del tipico prendersi e lasciarsi dei “fratelli coltelli”.
Spetta comunque a loro condurci in un’attualità che, per quanto caotica e perennemente riavvolta su se stessa, reca evidenti segni della rivoluzione innescata con un trip che, dalle aree post-industriali, è giunto su un pianeta simile a Solaris di Tarkovskij. Visioni e allucinazioni incluse, perché questa, oltre che bellissima, è musica intelligente. Ma, mi raccomando, non ditelo a Phil & Paul.