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Patrick Watson: Here Comes the River
Quello che succede quando registri in galleria del vento

Patrick Watson
Here Comes the River

Un Jeff Buckley sulle rive del San Lorenzo.

Here Comes the River suona come la colonna sonora perfetta de la Métropole, nella sua meravigliosa, suadente, malinconica semplicità.

Dimostra, senza l’ausilio di alcun fronzolo – ancora una volta – il grado di maturazione a cui il chamber pop montrealiano è ormai arrivato (il pezzo è dell’anno scorso). Wave fa fronte alla perdita della madre di Patrick Watson, il suo stesso divorzio e il suicidio di un amico fraterno. Roba pesa, ma raccontata bene, e che giustifica i quattro anni aspettati per il seguito di Love Songs for Robots.

Difficile anche che non arrivi una nota sensuale, come di piacevole carezza emotiva, quando si guarda il cantautore camminare tuffandosi in acqua dalla sua barca a forma di cigno, o essere un impavido ragazzino-capitano del suo pianoforte itinerante per la città. Saranno trovate non troppo originali, eppure – come tutti i clichés – riescono ancora a essere efficaci. Elementare, Watson, verrebbe da dire, giusto per non esimersi neanche da battute come questa, quando funzionano.

Dopo collaborazioni importanti (vedi quella con con i Cinematic Orchestra), album ska, canzoni in serie televisive (Grey’s Anatomy, Suits, varie ed eventuali) e altro, Watson (che è nato in California ma cresciuto in Québec) si unisce alla chitarra di Simon Angell, le percussioni di Robbie Kuster, e il basso Mishka Stein e diventa – ultimo paragone melenso, ma dovuto, giuro – il Nick Drake (o il Jeff Buckley, fate voi) canadese.

Patrick Watson 

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