C’erano una volta i Dr. Feelgood: per un breve periodo, negli anni ‘70, fra i gruppi rock più importanti e noti del Regno Unito (tuttora attivi, a onor del vero). Poi il loro folgorante chitarrista se n’è andato (o è stato cacciato via, a seconda delle versioni), ha fatto altre cose “minori”, ha recitato in una serie TV che tutti conoscete e, nel tempo libero, prima ha annunciato di avere un male incurabile… e poi lo ha curato con successo. Non una vita banale, quella di Wilko Johnson – col prezioso valore aggiunto di poterla ancora raccontare in prima persona.
(le immagini di Wilko Johnson sono di proprietà dei fotografi Leif Laaksonen e Simon Reed, ndr)
Dopo aver assistito a un soundcheck molto rapido, ci ritroviamo di fronte al musicista inglese. Siamo a Castelceriolo, alle porte di Alessandria, e manca qualche ora al concerto della Wilko Johnson Band al Cinema Macallè – una piccola sala d’essai che ospita concerti rock mica banali (Blasters), all’occasione.
Il nostro interlocutore non è il ritratto della salute. Non lo era lo scorso 23 marzo, perlomeno. E lo si è visto nitidamente sul palco, durante uno show godibile ma concluso a fatica, tra interruzioni varie e almeno uno svenimento. Wilko è sì sopravvissuto al cancro, ma non senza delle conseguenze spiacevoli (il diabete in particolare, sembrerebbe).
Il luogo comune vorrebbe che il rock’n’roll “non muore mai”. Ma i suoi protagonisti sì, purtroppo. Per un Keith Richards che continua a ridersela in barba ai pronostici macabri, ogni settimana qualche altra rockstar – o anche solo qualche onesto mestierante delle sette note – si congeda più o meno senza preavviso, ormai. A volte si teme persino di collegarsi ai social: chi sarà schiattato, oggi?
Nonostante tutto, non John Peter Wilkinson.
All’inizio del 2013, Johnson annuncia di avere un tumore al pancreas e che i medici gli hanno dato circa dieci mesi di vita. Malori permettendo, nei mesi successivi effettua un “farewell tour” – in senso letterale – e incide l’album Going Back Home, cantato da Roger Daltrey degli Who.
È un lungo addio paradossalmente vitale, il suo: ovunque si rechi, viene ricoperto di elogi e affetto. Difficile calcolare quanto “effetto pietà” risieda nella sua celebrazione ante mortem, ma non importa. Wilko è un grande, che stia per lasciarci o meno.
E non ci lascerà, grazie a un nuovo consulto medico verso fine anno e a una lunga e delicata operazione chirurgica, dove gli vengono asportati una massa tumorale di tre chili, il pancreas, la milza e parte dello stomaco e dell’intestino.
Il rock ha salvato Wilko Johnson, dunque? La musica è stata una delle sue ragioni di vita, fin da ragazzo, e lo stava per accompagnare fino agli ultimi giorni. Il suo angelo custode si è materializzato proprio in questo ambiente: è stato infatti un fotografo musicale per hobby, ma soprattutto un chirurgo specializzato in melanomi e cancri del seno, a caldeggiare un secondo parere professionale circa la sua patologia. Il suo nome è Charlie Chan.
Questa è una storia prettamente inglese, in ogni caso; pur di fronte alle tragedie, contempla anche una certa dose di umorismo tendente al sarcasmo. In tal senso, esemplare il documentario The Ecstasy of Wilko Johnson del 2015 (diretto da Julien Temple). Da una parte, al netto di qualsiasi retorica, è arduo sostenere che il rock in sé abbia fatto miracoli nella guarigione di Wilko. Dall’altra, a un certo punto della narrazione, lui stesso afferma con una certa solennità che «rock’n’roll is a thing of the moment». Il suo personale e benefico “qui e ora”, insomma?
«Quando mi è stato diagnosticato il cancro, dicendomi che non avrei vissuto per un altro anno ancora, ho capito che la vita andava davvero vissuta momento per momento. Ora, adesso: per me, per te, per tutti… non c’è futuro cui pensare, perché prima o poi moriremo! (sorride, nda) Avevo dei concerti in programma e ho scoperto che quel tipo di consapevolezza era perfetto per suonare la mia musica. Quando ti trovi sul palco, conta solo quell’attimo lì: non c’è nessun “ieri” e nessun “domani” ed è una sensazione bellissima. Sei dannatamente vivo ed è l’unica cosa che importi. Il rock è stata la mia forma di yoga! (ride, nda)».
Le strade di Wilko Johnson e Julian Temple si erano già incrociate nel 2009. Il regista londinese – noto per il film Absolute Beginners e i documentari sui Sex Pistols e su Joe Strummer dei Clash – aveva firmato Oil City Confidential: un “rockumentary” che raccontava la storia dei Dr. Feelgood in stretto rapporto con la loro natia Canvey Island (isola nell’estuario del Tamigi e località dell’Essex a vocazione turistica, ma pesantemente condizionata dall’industria petrolchimica). Un lavoro eccellente, tra biografia musicale e risvolti storici e sociali. Se doveste guardarlo, tuttavia, non contate sulla presenza di uno dei suoi protagonisti:
«Ho sempre avuto una specie d’inibizione nei confronti delle mie video-immagini: non mi piace rivedermi al cinema o in televisione. Non ho mai nemmeno guardato Il Trono di Spade! (ride, nda)».
(sì: Wilko Johnson ha recitato nelle prime due stagioni del vostro sceneggiato fantasy preferito, prima della diagnosi della malattia. La sua parte era quella, muta, del glaciale giustiziere Ilyn Payne)
«Canvey Island rappresenta qualcosa di molto personale, per me, essendoci nato e cresciuto», prosegue. «Uno dei miei primi ricordi è legato alla catastrofica mareggiata del 1953, dove morirono molte persone. Avevo cinque anni e non avevo mai conosciuto un disastro simile: svegliarsi un mattino e rischiare all’improvviso la vita… Dopo l’evacuazione e terminata l’emergenza, siamo tornati nella nostra casa, che era proprio in mezzo all’isola, ma alcuni dei bambini che vivevano vicino a noi non c’erano più: l’acqua li aveva portati via. Negli anni ’60 la campagna è diventata città, con la costruzione di numerosi quartieri popolari; un grosso cambiamento. Ancora oggi mi ci perdo… Il mio legame con Canvey Island rimane molto romantico, comunque. Tempo fa un amico francese è venuto a trovarmi e mi ha chiesto di portarlo a visitare i luoghi della mia infanzia. Gli ho risposto che non ne valeva la pena, che ormai era tutto diverso e più noioso ecc., ma lui ha insistito. Così abbiamo fatto un bel giro in macchina, prima di fermarci in un pub. Lì mi ha guardato e detto: ‘Questo posto è proprio strano’. L’ho preso come il miglior complimento possibile! (ride, nda)».
Agli albori dei Dr. Feelgood (inizio anni ’70, dopo esser rientrato da un viaggio “hippy” in oriente e aver incontrato il cantante Lee Brilleaux), per un breve periodo Wilko ha lavorato anche come insegnante alle scuole superiori. Laureato in lettere medievali presso l’università di Newcastle, si era dedicato in particolare alle antiche saghe islandesi. La letteratura classica è rimasta una compagna fedele, quindi: una passione mai estinta (come quella per l’astronomia). Qual è, a suo avviso, un autore dal “messaggio” tuttora più significativo e attuale che mai?
«William Shakespeare è il genio universale per antonomasia. Proprio ieri notte stavo rileggendo Amleto, prima di addormentarmi: la bellezza dei suoi versi e del suo uso della lingua inglese, la profondità di contenuti… impareggiabile. Si rivolge a chiunque e, come in altre forme d’arte, un artista così ispirato trascende il tempo. Non so, tipo Michelangelo Buonarroti: di fronte a personaggi così, la mia ammirazione è incondizionata».
L’arte scalda evidentemente l’animo di Wilko Johnson, ma ci riesce pure la politica. Se proprio volete farlo arrabbiare, per esempio, basta pronunciare un termine molto attuale: Brex…
«(interrompendoci bruscamente, nda) Oh, che parola del cazzo! Orribile, orribile, brutta, stupida parola. ‘Brexit!’ (la scandisce in maniera volontariamente caricaturale, nda). Vaffanculo! La odio. Vi dico una cosa: tre anni ho visitato Roma, per la prima volta. Travolgente, ovvio. A un certo punto ero da qualche parte in centro città e ho cominciato a riflettere sull’Unione Europea. Ho pensato: ‘Anche io faccio parte di questo: wow, che bello’. Sono questi i miei pensieri sulla UE; non me ne frega un cazzo dei discorsi economici e politici. La Brexit mi fa veramente incazzare, è un errore macroscopico. Volete portarmi via le sensazioni che ho provato quel giorno a Roma? Ma andate affanculo, stupidi stronzi che pensate che basti un referendum del cazzo per prendere delle decisioni su una questione così complessa!».
Meglio tornare alla musica. Nel corso della sua carriera, Wilko ha incontrato tanti personaggi intriganti: alcuni sono stati “solo” dei buoni amici (tipo Jean-Jacques Burnel degli Stranglers); con altri ha collaborato direttamente. Uno piuttosto sottovalutato – al di fuori del Regno Unito, se non altro – è stato Ian Dury.
«I Dr. Feelgood suonarono dal vivo a Londra con la sua prima band, Kilburn and the High Roads. Anni dopo, guardando alla televisione un filmato dei Blockheads (il secondo e più famoso gruppo di Dury, nda), pensai subito: cazzo, quel bassista è favoloso. Non conoscevo di persona Norman Watt-Roy, ma diventò presto il mio bassista preferito (Watt-Roy oggi milita nella Wilko Johnson Band assieme al batterista Dylan Howe, anch’egli ex Blockheads e figlio di Steve Howe degli Yes, nda). Ma dicevamo di Ian: in seguito, quando mi ha chiesto di unirmi ai Blockheads, ero sul punto di abbandonare la musica e cercarmi un lavoro serio. Con loro ho vissuto un periodo molto bello. Era un’ottima band, innanzitutto; inoltre, dovevo solamente suonare la chitarra ritmica: il frontman era Ian e l’attenzione era rivolta tutta a lui. Mi sentivo perfettamente a mio agio e me la sono spassata».
E dopo aver registrato un album con un divo come Daltrey (che, al di là della vicenda della malattia, ha contribuito non poco alla riscoperta critica e commerciale di Wilko), è rimasto qualche altro “sogno proibito” nel cassetto di Johnson?
«Mi piacerebbe, anche per una volta sola, suonare la chitarra assieme a Bob Dylan… (gli brillano gli occhi e sorride quasi imbarazzato, nda). Nel 1978 lui si esibì in un grosso festival inglese: per la prima volta potevo vederlo dal vivo, pur avendolo sempre adorato (specie per Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde). Fu eccezionale. Dopo il concerto, ero nel backstage con Joe Strummer: sapeva bene quanto amassi Dylan, per cui mi diede un pass dorato speciale per avere ulteriore accesso ai camerini e dintorni. ‘Prendi questo e vai a conoscerlo’, mi disse. Io guardai quel pass e pensai: ‘No, non oso andare a parlarci’. E non ci andai: mi sarei sentito un idiota! (ride, nda) Non c’è nessuno come lui; ha scritto decine di grandi canzoni che, prese a una a una, farebbero la fortuna di qualsiasi altro musicista e ancora oggi sono assolutamente rilevanti. Negli anni ‘60 era un vero simbolo e, per me, il tipo più in gamba del mondo. Quando mi seppelliranno, vorrei che in sottofondo ci fosse Mr. Tambourine Man. Aspettiamo però qualche anno, ok?! (sorride, nda)».
Johnson si congeda cordialmente, con un bel sorriso e uno sguardo a tratti fanciullesco. Come detto, lo spettacolo della serata non filerà del tutto liscio; a livello emotivo, tuttavia, lascerà ai presenti un ricordo più intenso di tanti altri concerti “eclatanti”.
Forse la grande storia del rock l’hanno scritta altri – probabilmente più talentuosi, belli e scaltri. Ma non c’è dubbio che, oggi, Johnson sia un campione di umanità, vulnerabilità e dolcezza, a modo suo. Niente male per uno che, citando sempre The Ecstasy…, si autodefinisce come una sorta di compiaciuto eremita. Lunga vita e prosperità, Wilko.