Uscito il 2 novembre del 1979, Broken English è un romanzo in musica in cui la protagonista si ricompone dalle ceneri di ciò che era. Esercizio catartico e strumento di riscossa personale insieme, questo è il disco che più di ogni altro ha consegnato la Faithfull alla storia del musica popolare.
La mia è sempre stata una sola vita nella quale tutto rientra.
Il 2020 lo ricorderemo per la prima pandemia del mondo 2.0. Da par suo Marianne Faithfull la metterà nel cassetto in cui conserva le altre avversità su cui ha prevalso. Ultime in ordine di tempo, le tre settimane in ospedale si sommano alle trappole del destino e alle mai rinnegate trasgressioni, dimostrando una volta di più la caparbietà e la tenacia – sul serio straordinarie – di questa donna. Ed è il desiderio di un carpe diem senza falsi moralismi ad accomunare la diva pop, la tossicodipendente, l’attrice, la rockeuse di classe. Sfaccettature dello stesso diamante, ma anche un’orgogliosa dimostrazione che non possono darsi gioie senza dolori, né ascese senza cadute.
Per questo, se vogliamo cogliere in pieno la profondità e la bellezza di Broken English dobbiamo osservare la passeggiata all’inferno e ritorno condensata in otto canzoni. Una via lunga e tortuosa – per dirla con Paul McCartney – che vanta nobili origini nel prozio materno Leopold von Sacher-Masoch e genitori usciti da una storia di Hugo Pratt: la mamma è una baronessa austroungarica ed ex ballerina in produzioni brechtiane, il papà un’istruitissima spia di Sua Maestà. Divorziano presto e la bimba nata il 29 dicembre 1946 trascorre l’infanzia in povertà. In collegio dalle suore preferisce la recitazione, legge Kafka e gli esistenzialisti sognando un’esistenza fuori norma e inseguendo rock’n’roll, folk e jazz nei locali londinesi. Nemmeno diciottenne ammalia Andrew Loog Oldham, stratega dei Rolling Stones che ne lancia la carriera con As Tears Go By.
Da fascinosa equilibrista rimbalza tra riviste patinate, LP mediocri (tranne il folk meticcio di North County Maid, 1966) e la controcultura con il (primo) marito John Dunbar, fondatore della Indica Gallery. Da lui ha un bambino che le verrà tolto, ma il ruolo di moglie non calza ed entra in scena Mick Jagger. Marianne varca la soglia di un lato oscuro dove scandali e droga sono il contorno di un amore troppo folle per durare. Un sentimento estremo riassunto con rimarchevole maturità in Sister Morphine, autografo da brividi e singolo che la Decca, spaventata, non promuove. A fine decennio è l’ultima goccia. La ragazza non vuole essere l’ennesima vittima stonesiana – in lista attende l’amico Brian Jones – e si tuffa nell’abisso da martire di se stessa.
Pensavo di essere sul punto di morire e che quella sarebbe stata l’ultima possibilità di fare un disco.
Un aborto (di Mick, la figlia – il rapporto si chiude nel maggio ‘70) e un tentato suicidio culminano in un inferno di droga, anoressia e semi indigenza nei vicoli di Soho. Dal buio si risale poco alla volta grazie a Tony Calder, vecchio manager che la soccorre e suggerisce di incidere Dreaming My Dreams, brano del fuorilegge country Waylon Jennings che nel 1976 centra la prima piazza in Irlanda.
Dalla Swingin’ London al grigiore thatcheriano passando per i bassifondi, la trentenne che ha vissuto il triplo si avvicina curiosa al punk con il compagno Ben Brierley dei Vibrators. Scovato un partner artistico ideale nel chitarrista/compositore Barry Reynolds, il produttore Mark Miller Mundy persuade la Island e supervisiona la versione di Broken English rimasta “perduta” fino alla ristampa del 2013.
Con l’album finito, la Faithfull decide infatti di buttare tutto in favore di sonorità più attuali. Parafrasi noir della commistione fra rock e negritudine, fra elettronica spettrale e schegge new wave portata avanti in quel fruttifero 1979 da Grace Jones alle Bahamas, Broken English è dunque un gesto coraggioso, un azzardo a buon fine dove si calano carte vincenti senza bluffare. Con Steve Winwood a tastiere e sintetizzatori prende corpo un crocevia di stile, passione e intelligenza in cui la voce si sistema in primo piano e si impadronisce delle canzoni.
Quella lamina vibrante, arrochita dai vizi e dallo stare al mondo – fate conto una Patti Smith nicotinica, priva di smanie declamatorie – è il veicolo più adatto per mettere a nudo e raccontare l’anima che si trova di fronte al microfono. Anche se i brani non sono esplicitamente autobiografici, parlano pur sempre di Marianne e da lei arrivano. Di conseguenza, il 33 giri suona essenziale, scopre i nervi e la carne lungo una scaletta perfettamente equilibrata tra cover e autografi.
Vuoi il potere e hai bisogno della gloria.
Nulla è lasciato al caso, dall’iconico scatto di copertina a un titolo che tramite l’aggettivo broken ruota sul doppio senso tra l’inglese parlato malamente e la persona in frammenti. Dai quali la Signora si ricompone per adesso solo “in spirito”, cantando un blues moderno nella strascicata Brain Drain scritta da Brierley e giocando la lennoniana Working Class Hero in un ribollire di rasoiate e ira a stento trattenuta, laddove la cruda poesia di Heatcote Williams incentrata su un adulterio Why D’Ya Do It? accompagna verso la fine con passo di spigoloso reggae misto tango.
L’energia – viscerale però ricercata – è la stessa che respiri anche nel resto del programma: il ritratto della dipendenza tratteggiato nella tagliente What’s the Hurry? di Joe Mavety, l’irresistibile asso rock’n’groove di una title track spruzzata di tastiere e ispirata ai terroristi tedeschi della banda Baader/Meinhof, il folk amarognolo sospeso sopra brughiere e Caraibi di Witches Song, quello viceversa vestito di elettronica minimale The Ballad of Lucy Jordan (strappata per sempre dalle mani dei Dr. Hook & the Medicine Show), l’R&B ombrosamente post-punk di Guilt.
Poi la dark lady trasloca a New York per altri stravizi e deliri, finché un giorno si guarda allo specchio e dice basta.
Sboccia a metà anni ’80 la Faithfull attuale: Hal Willner, tessitore sonoro di gusto e inventiva supremi strappatoci (lui, invece sì) dal COVID-19, la invita a misurarsi con Brecht e Weill nel tributo Lost in the Stars. Le radici materne inaugurano la carriera di interprete che, con collaboratori eterogenei e ogni volta diversi, mescola poesia e vita, folk e rock, jazz e cabaret.
Alla fine Marianne si è trasformata in ciò che Nico e Judee Sill non seppero o forse non vollero essere: un angelo martoriato che conquista la salvezza a modo suo. Per qualcuno, rinascere significa morire spesso. Ma chissà quanto volentieri.