Ricordate gli smiley e i rave dalla sera alla mattina? Ricordate l’ultima volta che una mutazione pop divenne il pericolo pubblico numero uno? Ricordate quando trovammo la house e le chitarre abbracciati nel letto? Ricodate gli Happy Mondays, i Primal Scream, i Charlatans e gli Stone Roses? Era una nuova estate dell’amore. Era trent’anni fa.
Nella storia è cosa buona e giusta fermarsi a soppesare gli eventi. Ragionando sulla popular music questo approccio andrebbe eletto a regola, perché il distacco cronologico aiuta a ricontestualizzare il passato e a leggere meglio il presente. Ad esempio, sembra incredibile che dalla “Pazza Manchester” siano trascorsi trent’anni, cioè il medesimo lasso di tempo che separa la prima sessione da leader di Miles Davis dai Sex Pistols. In ogni caso, messo da parte l’amarcord, le ricorrenze possono servire a comprendere cosa resta delle fiamme originarie e, per la stagione che sbriciolò la barriera tra rock e dance, direi parecchio in termini di eredità attitudinale. Un lascito di solidità e diffusione ancor più sorprendenti se consideriamo il gruzzolo piuttosto modesto di dischi davvero memorabili che ne è alla base.
Dischi che peraltro da soli non sono sufficienti a spiegare l’accaduto. Chi era troppo giovane o magari neppure era, deve provare a immaginare un mondo grigio e austero che si trasforma in un caleidoscopio dove rocker e discotecari non si guardano più in cagnesco. Assurdo, certo, ma per strada avevamo scordato che la nostra musica preferita era sempre servita anche a (s)ballare! In ambito mainstream, la collaborazione fra Run DMC e Aerosmith per rifare Walk This Way dovrebbe rinfrescare la memoria.
Rock e hip hop andavano a braccetto, come a breve avrebbero ulteriormente chiarito i Beastie Boys. L’universo indie procedeva invece un po’ più lento nonostante Sandinista!, Remain in Light e la mutant disco.
Mancava ancora un tassello, e giunge non per caso a cavallo tra Ottanta e Novanta, allorché il crossover nato a inizio decennio comincia a venire alimentato e propulso da un efficace taglio pop, dall’irrompere della house e da un basilare cambio di mentalità sul quale vale la pena soffermarsi. Perché se in How Soon Is Now? Morrissey canta di andare in un club da solo, starci da solo e tornare a casa da solo con la voglia di morire e con Panic rincara la dose inneggiando addirittura all’impiccagione del DJ, all’estremo opposto Johnny Marr collabora (Electronic il nome del progetto) con Bernard Sumner dei New Order, traghettatori in viaggio verso luccicanti mattini tra Baleari e New York dopo l’oscurità emotiva dei Joy Division.
Tutta qui la differenza. Transitando da un’era all’altra, nel nord proletario qualcuno gettava il vittimismo da cameretta per lanciarsi in pista e ballare. Presto i lunedì sarebbero passati da blue a happy. Alleluia.
La trasformazione nel modo di pensare è la stessa che oggi diamo per scontata, ma che permette di amare tutti insieme Chemical Brothers e Bob Dylan, Clash e Hot Chip. Se il settarismo nel gusto è un male conclamato l’abbiamo capito anche con Madchester, un bastardo sexy che manda in felice collisione psichedelia e rivisitazioni black mentre l’acid house fa da carburante e collante. Risulta comunque impossibile stabilire il momento esatto in cui si è passati da no future a future? Bah… In realtà si è trattato di un intersecarsi di fattori che dal sottobosco sono saliti progressivamente alle luci della ribalta. Luci che sono rimaste accese per poco, ma per il tempo che bastava. Eccome.
Un primo raggio di sole fende le nubi nel maggio 1982: Tony Wilson (il genio pazzoide a capo dell’etichetta Factory) apre il club Haçienda, cui servirà tempo per divenire il capostipite delle moderne discoteche dove respiri anche una filosofia, un genius loci. Cinque anni dopo, ogni venerdì il DJ Mike Pickering sbatte nelle orecchie degli astanti il mesmerico rutilare della primitiva house di Chicago. La voce si sparge, c’è la fila per entrare, l’epidemia dilaga e l’ecstasy pure, perché ogni genere musicale ha un additivo chimico – e un look: leggete oltre – che lo caratterizza. Trasformando una serata di svago in un’esperienza più ampia, la droga dell’amore cambia la club culture per sempre.
Intanto le band cittadine cercano un’identità a esclusione dei favolosi Yargo, comunque in eccessivo anticipo per approfittare del clamore. Lento l’apprendistato di Stone Roses (alle prese con Byrds e Beatles sin dai medi Eighties) e dei borgatari Happy Mondays, da quasi un decennio in giro a sgrezzare storture funk-wave. Occorreva qualcosa che di un pugno di valide intuizioni facesse materia straordinaria, e quel qualcosa è lo Zeitgeist sopra descritto: quel “volemose bene” alimentato sinteticamente tra folate di – toh! – synth e il frustare della Roland 808. Cifra non solo stilistica che Martin Price, Graham Massey e Gerald Simpson usano per dipingere house mista a techno e fusion anni ’70 nel progetto 808 State.
È proprio il dimissionario Simpson aka A Guy Called Gerald a spedire nel novembre ‘88 Voodoo Ray in cima alle chart unificando i continenti indie e dance. Un mese prima, la gemma Elephant Stone ha permesso agli Stone Roses un progresso significativo con un altro New Order (il bassista Peter Hook) in regia e i Mondays hanno replicato con il debosciato mantra Wrote for Luck. Nel 1989 il caso esplode: The Stone Roses entra nei classici fungendo da cerniera sul nuovo che avanza, tra le feste a tema “Ibiza” alla Haçienda e il termine baggy – “largo, cascante” – usato per chi sta imponendo ampie magliette tie-dye e jeans a zampa. Anche nella moda, l’hippie sfuma nel raver e viceversa.
Ibridi i suoni, ibrido lo stile. Ne offre in quantità il tris di singoli (ehm…) calato dopo la “summer of love”, che dalla trasparente Pacific State degli 808 State attraversa la metamorfosi kraut-funk di Ian Brown e soci in Fools Gold e culmina nell’autocelebrativo EP Madchester Rave on degli Happy Mondays.
Se ne accorgono i tabloid, la BBC, il mercato e Albione tutta si accoda con un plotone (Farm, Northside, Mock Turtles, Flowered Up, Soup Dragons) diviso fra opportunisti, mestieranti e gente da una botta alle classifiche e via. L’esposizione mediatica culmina nel biennio ’90-’91, marchiata a fuoco dalla “summa” Pills ‘n’ Thrills and Bellyaches e da Screamadelica, capolavoro assoluto che con un piede dentro e uno fuori dalla “cosa” cristallizza alla perfezione il passaggio di (psichedeliche) consegne.
Aggiungete altre opere ottime e commercialmente fortunate come i debutti di Charlatans e Inspiral Carpets e Gold Mother dei James, pur tenendo conto che siamo quasi agli sgoccioli. Nella tarda primavera 1990 il concerto degli Stone Roses a Spike Island – attenzione: con un manipolo di DJ a supporto – chiude i giochi. I ragazzi si arenano in beghe contrattuali, gli Happy Mondays subentrano in vetta ma si schiantano alle Barbados, consumando crack e registrando un disco pessimo. Ironia della sorte, i costi di lavorazione causano la bancarotta della Factory. Fine della festa. Ciò nonostante, il virus si era ampiamente diffuso nel corpo del pop.
Autunno 1992: Madchester è ormai un ricordo. Lo spaccio organizzato ha creato un clima violento, i rave sono istituzionalizzati o estremisti, la stampa si è spostata sullo shoegaze. Il nascente britpop sfocerà nel tradizionalismo roboante e prevedibile dei fratelli Gallagher, mentre a impugnare il testimone creativo sarà un quartetto dell’Essex partito indossando abiti “baggy”. Dovreste averli già sentiti nominare: si chiamano Blur.
La spina dorsale del Madchester. Equamente ripartita fra album ed EP/singoli, perché fu soprattutto una questione pop: fascinosa, fulminea, senza fronzoli.
🎧 The Charlatans – Some Friendly (Beggars Banquet, 1990)
Nessun altro lavoro del quintetto del West Midlands vale un debutto che gestisce disinvoltamente la contaminazione. Il loro suono ha referenti palesi in Brian Auger, Graham Bond Organization, Spencer Davis Group e Prisoners, tuttavia l’ascolto attento svela la sintonia della vena r’n’b inzuppata nel pop e caramellata da un organo Hammond con un’attualità di jingle-jangle alla R.E.M., malinconie neo-psych e groove ballabili. Ricetta qui gustosa dall’inizio alla fine, specie nella versione CD che ripesca il singolo The Only One I Know, brano in assoluto più memorabile della formazione.
🎧 Happy Mondays – Pills ‘n’ Thrills and Bellyaches (Factory, 1990)
Spettò a una cricca di proletari (significativamente: cinque musicisti più spiritato ballerino) il compito di far decollare il “movimento”. Da una cruda realtà di sobborghi e spaccio, soggetti più vicini a un Pasolini britannico che agli “Angry Young Men” distillarono un inebriante cocktail di Fall e disco-funk anni ’70. Mistura perfezionata anche grazie a un produttore capace di comprendere retroterra e ambizioni del gruppo come Paul Oakenfold, DJ e frequentatore dell’Haçienda che olia una macchina di obliqua danzabilità, umore stranito però euforico e squisita follia con metodo.
🎧 Inspiral Carpets – Life (Mute, 1990)
L’ascesa degli Inspiral Carpets fu repentina quanto lo scivolare nelle retrovie, ma tranne alcuni ottimi esperimenti, i ragazzi erano in sostanza le mosche bianche della scena. Il loro garage venato post-punk e percorso da moderne frenesie (grossomodo: la versione pastello degli Stranglers) resta tuttavia godibile quando non prezioso, particolarmente in un solido primo LP forte della malinconia adolescenziale – Ray Davies in combutta con Phil Spector – di This Is How It Feels, dell’epidermica e complessa She Comes in the Fall, di una Song for a Family degna dei Teardrop Explodes.
🎧 Primal Scream - Screamadelica (Creation, 1991)
A convincere i residui dubbi dei puristi fu la band che sciolse il rock nella dance tramite il comune denominatore acid. Nell’estate 1989, Andy Weatherall – ex roadie dei Clash divenuto DJ – remixa I’m Losing More than I’ll Ever Have dei Primal Scream e anticipa il trip-hop con una dilatazione di Sympathy for the Devil. Segue un album di stupefacente, stupefatta unione fra radici e innovazione dove tra tante altre cose il gospel-rock convive con programmatici stravolgimenti dei 13th Floor Elevators, sinfonie ambient dub, sensualità hip-house. Un Sgt. Pepper’s oltre il suo tempo e affatto invecchiato.
🎧 The Stone Roses - The Stone Roses (Silvertone, 1989)
Come altri dischi usciti in chiusura di un decennio, The Stone Roses suggella un’epoca spargendo semi di futuro. Ponte tra il Madchester e un tipico pop chitarristico british sovvertito in maniera subliminale, sistema l’immaginifica sei corde di John Squire e la voce suadente di Ian Brown su una delle più solide e fantasiose sezioni ritmiche d’oltremanica rivisitando i ‘60 con ironia, uso arguto dello studio di registrazione e scrittura in divina grazia. Miracolo ineguagliato, siccome dopo due ottimi 12” il gruppo imbocca uno stallo quinquennale. Al ritorno, l’incantesimo sarà svanito.
🎧 Yargo - Bodybeat (London, 1987)
Degli Yargo spiega tutto la foto di copertina dell’esordio. Due bocche stanno per baciarsi, una appartiene a un uomo di colore e l’altra a una donna bianca. Come a dire: la nostra fusione è totale e ve lo dimostreremo. Erano loro malgrado “troppo” avanti, questi A Certain Ratio morbidi che scambiano il funk con un blues screziato di jazz e soul e che – con al microfono l’anello mancante tra Marvin Gaye e Nina Simone – incastrano guizzi di chitarre e fiati su ritmiche di un minimalismo vivace e memore del dub. Scarse le vendite, entro un biennio gli Yargo si sciolgono diventando culti assoluti.
🎵 808 State - State Ritual (Creed, 1989)
Martin Price allestisce gli 808 State con Graham Massey e Gerald Simpson nel suo negozio di dischi. Messo tutto in chiaro con una ragione sociale ispirata dalla drum machine che cambiò la storia, dopo il primo EP osserva Gerald sbattere la porta, lo rimpiazza con i DJ Spinmasters e porge house umanista nella quale le seduzioni ambient non scivolano nella leziosità. Un risveglio a Ibiza dopo una notte brava in uno stato pacifico, come recita uno dei pezzi in scaletta tra i primi successi della formazione.
🎵 A Guy Called Gerald - Voodoo Ray (Rham, 1988)
L’ineffabile Voodoo Ray salda un’anima indie alla house con stridori tec(h)nologici, voci fantasma e un telaio ritmico che si fissa subito nella memoria. Pop mutante al silicio tribale e futuribile figlio di uno schizzo di bile, siccome Gerald mollava gli 808 State e – pare derubato di un tot di diritti d’autore – metteva su nastro una Voodoo Rage accorciata nel titolo per la scarsa memoria del campionatore. Guadagnando così un’ulteriore dose del sintomatico mistero che da allora avvolge questa meraviglia.
🎵 James - Sit Down (Fontana, 1989)
Sono in circolazione da un lustro i James che nell’86 centrano con Stutter un LP nel quale gli Smiths fingono di essere i Feelies. In seguito si impantanano fino all’esplosione del Madchester, che adattano e cavalcano con bravura: l’epica sentimentale temprata dall’understatement di Sit Down sarà infatti il pilastro di una seconda vita lunga e felice, e in quei giorni conclude in modo perfetto i DJ set cittadini. Abbracciatela, abbracciatevi e abbracciamoci in pista: la vita è bella e bisogna far festa.
🎵 Flowered Up - Weekender (Heavenly, 1992)
I londinesi Flowered Up si distinsero con un tormentone che del “baggy” coglieva in pieno il disimpegno. Riciclando idee già divenute stilemi, scansano i cliché in una manciata di minuti giocati su funk candeggiato, saliscendi melodici, chitarrone e singulti da Shaun Ryder versione cabaret. Di questo inno al divertimento sfrenato (della serie: il fine settimana è qui, di tutto il resto non ci frega nulla) sempre Andy Weatherall ricaverà un trip sonoro che dal venerdì sera conduce alla domenica mattina.
🎵 Happy Mondays - Madchester Rave On (Factory, 1989)
La presenza della gang in entrambi gli elenchi si spiega facilmente: loro impersonano la fusione tra generi e spirito orgiastico che rappresenta l’essenza di tutta la scena. E se Pills ‘n’ Thrills and Bellyaches si pone da vertice assoluto, è qui che stanno le sue fondamenta. Dal primo posto della chart indipendente, l’EP spalanca le porte di Top of the Pops scatenando la rivoluzione con gospel puttaneschi, funky dell’uomo bianco con la bocca piena di pasticche e scorribande in balera con Mark E. Smith.
🎵 Soup Dragons - I’m Free (Big Life, 1990)
Ovvero: riciclarsi con un colpo di genio. A metà ‘80 gli scozzesi Soup Dragons tergiversano nel filone C86 imitando i Buzzcocks. Pigri e furbetti, cambiano strada con una piacevolissima cover a firma Jagger/Richards, ribaltata conservando la guascona orecchiabilità originale e sistemando su quella scansione saltellante un inserto di Junior Reid tra rap e toasting. Il risultato è un collage ruffiano però pure arguto che si appiccica addosso come gomma da masticare e nel 2020 fa ancora muovere le gambe.
Manchester Happy Mondays Primal Scream Charlatans Stone Roses Chemical Brothers Factory Factory Records Madchester
↦ Leggi anche:
Iceage: Vendetta
Extranauts: We Used to Dream