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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Songs for Drella: un ultimo saluto a Andy Warhol

Il riavvicinamento di Lou Reed e John Cale, in onore del loro pigmalione.

Due autori tra i più geniali e complessi del rock di ogni epoca seppelliscono l’ascia di guerra. Per quindici minuti sbirciano nello specchietto retrovisore, incrociando lo sguardo stupefatto del Maestro. Che ne uscisse un capolavoro era praticamente scontato.

Art

Appena capisce che preferiresti fare i conti senza di lui, il passato può rivelarsi un oste piuttosto dispettoso. Che arrivi sotto forma di una dolce madeleine o irrompa come un elefante in una cristalleria, pensare di evitarlo è comunque un’illusione. A volte, però, volgersi indietro diventa un trampolino per lanciarsi nel futuro ed è esattamente quanto succede a Lou Reed e John Cale nel momento in cui decidono di omaggiare il loro mentore Andy Warhol. Con un gesto artistico e umano frutto di assoluta collaborazione, non solo si scuoteranno dal torpore ma restituiranno di chi aveva rimosso l’unicità e il sentimento dall’arte un ritratto a tutto tondo, quando non addirittura sorprendente.

NYC, 1976 – eccoli, i magnifici tre.

Ripensandoci oggi, andarsene all’improvviso dopo aver dipinto una nuova, dissacrante Ultima cena sembrava l’ennesimo stratagemma di un genio multiforme, che aveva conferito fascino agli oggetti comuni lasciando per testamento cuscini color argento, scatole di detersivo e lattine di minestra. Quando affermava che per capirlo bastava guardare la superficie delle sue opere, Andy era sincero: se rimuoviamo la patina di banalità consumistica, nel campionario di cose comuni, di fotografie di icone e copie di immagini quotidiane che ha allestito abita uno spirito che, nel bene e nel male, le trasforma in un distillato del Novecento. Spiegare un’epoca mentre vive nell’eternità è il compito principale dell’arte. E, ovviamente, della migliore musica pop.

Romeo e Giulietta nella stessa persona.

Bello pensare che la questione stia anche in questi termini per un nome controverso, frainteso e fin troppo spesso affrontato con la falsa nonchalance – chiamiamola pure con il suo nome, disonestà – che costruisce e smantella i miti a capriccio. Un po’ perché dell’artista statunitense conferma, casomai ce ne fosse ancora bisogno, la statura di classico che continua a fornire argomenti di riflessione. E un po’ perché ciò che resta di chi non è più tra noi serve ad affrontare la perdita, consolandoci nei momenti di rimpianto in cui, consci che non vengono concesse altre possibilità, vorremmo aver detto e fatto tutt’altro.

Dicono che ciò serva a diventare adulti, dunque non è un caso se Songs for Drella nacque già grande. Anzi, grandissimo.

Pop

Con gli splendori che paiono definitivamente alle spalle, nei medi Ottanta da John Cale e (soprattutto) da Lou Reed ci si aspetta giusto un’annoiata mediocrità. Ciò nonostante, la Grande Livellatrice ha in serbo per entrambi svolte che provocano l’ennesima resurrezione dell’uno e l’ultima fase davvero creativa dell’altro.

A fungere da scintilla è la reazione a trascorsi che si sgretolano in maniera drammatica. Il 22 febbraio 1987 Andy Warhol entra in ospedale per un intervento alla cistifellea, non sopravvive e l’inattesa dipartita mette di fronte alla morte due individui avviati verso il fatidico traguardo dei cinquant’anni. Non più soltanto oggetto di rappresentazione, la condizione umana si presenta loro in tutta la sua autentica durezza.

A modo suo, una specie di testamento – e chi vuole intendere intenda.

Il primo di aprile successivo a New York si tiene una veglia funebre per il vate della Pop art americana. Nella cattedrale di San Patrizio, John e Lou si incontrano e chiacchierano dopo un quindicennio di “buongiorno, buonasera” sibilati a mezza bocca. A un certo punto si intromette il pittore e regista Julian Schnabel suggerendo che facciano qualcosa per commemorare Andy adeguatamente. Colpito dove fa più male, nei mesi seguenti Reed pensa all’addio che non ha pronunciato, incassa la scomparsa di Nico e soppesa la propria gioventù scapigliata. Scavando dentro di sé, nell’89 recapita l’immensa letteratura stradaiola di New York. Nel frattempo, tra analoghe tribolazioni John ha preparato una bozza del tributo e gliela sottopone.

Per l’occasione, i rispettivi ego – nati sotto il segno dei Pesci: umorali, tracimanti, ingestibili – vengono messi da parte. Pur con qualche attrito, la tregua dura abbastanza da realizzare un racconto in musica che assomiglia più a un’opera teatrale che a certi ingessati concept.

Collaudati i brani dal vivo in una cattedrale newyorchese e alla Brooklyn Academy of Music, per una ventina di giorni decembrini ci si chiude in studio concentrandosi sull’uomo e in ogni circostanza cruciale l’artista risulta da esso inscindibile. In ordine cronologico sfilano la fuga giovanile dalla natia Pittsburgh, l’impronta lasciata sui Sixties, la Factory e il cinema, lo spartiacque dell’attentato di Valerie Solanas, la fatica che costa ottenere la fama e doverla gestire.

C’è tutto, senza sconti per nessuno e in primis gli artefici stessi.

Natale con i tuoi.

Tutto lo stile che ci vuole

In un 1989 segnato in profondità anche dalle “rinascite” di Bob Dylan e Neil Young, il gallese Cale torna in vetta con Words for the Dying, 33 giri nel quale onora a sua volta le “radici” musicando versi del conterraneo Dylan Thomas. Il rigore orchestrale e la rinnovata lucidità che lo contraddistinguono sono le ultime tessere che si incastrano, considerando anche il fatto che Reed già aveva chiuso New York da esperto romanziere con Dime Store Mystery, un necrologio per Warhol che dipanava severi bandoli esistenziali.

La primavera 1990 saluta così Songs for Drella e due universi che, raccontando chi contribuì a renderli ciò che sono, si rivedono dentro uno specchio – I’ll Be Your Mirror: oh, sì! – e come nei Velvet Underground fondono i rispettivi linguaggi in un capolavoro. Niente maledettismo urbano, ovviamente. Al suo posto, una messa da requiem dal profondo umanesimo spirituale e vicende offerte con piena partecipazione evitando retorica e agiografie. Parla chiaro in tal senso la scelta dell’acidulo soprannome “Drella”, crasi di Cenerentola e Dracula coniata da Billy Name che di Warhol riassumeva l’ambivalenza caratteriale.

O almeno questa è la teoria più accreditata, anche se Lou Reed se ne chiama fuori con un sospetto: «I have no idea».

Chitarre, tastiere, viola e voci sono impiegate in quella maniera – minimale, efficace, ancora avanguardistica: qui l’autentica reunion dei Velvet, altro che la baracconata del ’93! – per costruire trame di ricercatezza insieme robusta e scarna. La scrittura, sviluppata principalmente al pianoforte, avvolge gli arrangiamenti con un taglio cameristico che snocciola la cronaca e descrive i personaggi, moltiplica i punti di vista e investe il particolare di valori universali, però sposando sempre le sonorità ai temi e alla storia. In perfetta armonia, cinquanta prodigiosi minuti da ascoltare e leggere scorrono in un lampo, sistemando il dopo-rock rumorista delle concitate, rabbiose Work, Images e I Believe accanto allo squisito vaudeville Smalltown e alla delicata Style It Takes. Episodi che diresti provenire da Paris 1919, quando in realtà – e nonostante Lou prevalga al microfono – le atmosfere e l’arredo strumentale ricordano un altro capolavoro di Cale, il più cupo Music for a New Society.

Pubblico seduto e distanziamento anche sul palco – innegabile quanto fossero già avanti.

Custoditi da estremi così lontani che finiscono per raggiungersi ci sono gioielli come una Nobody but You da maturo Leonard Cohen, l’ambient blues Faces and Names e la dilatata introspezione A Dream.

Se la vetrosa, soffusa Open House possiede un retrogusto sardonico, Slip Away medita con amarezza e Trouble with Classicists scolpisce polemici sbalzi d’umore. Alle Forever Changed e Starlight che sferragliano compatte ed eleganti replica una It Wasn’t Me con i crismi del malinconico inno.

Il congedo è affidato alla struggente confessione-con-catarsi Hello It’s Me, nella quale Lewis Allan Reed getta la maschera adottando un mettersi a nudo sino ad allora inedito che ritroveremo in Magic and Loss.

«Well now Andy / I guess we've gotta go / I wish somewhere somehow / Your life has little show / I know this is late in coming / But it's the only way I know» – ci sono sicuramente modi peggiori di dire addio.

Con una fantastica simbologia, sulla copertina il viso del Maestro si sovrappone ai discepoli utilizzando un gioco in controluce che rimanda al fronte di White Light / White Heat. Dietro ai volti scorgi anime che si ricongiungono e in quel preciso istante capisci che le canzoni per Drella sono l’ultimo cerchio di un Giotto del nuovo mondo. Addio, ventesimo secolo. Goodbye, Andy.

Andy Wharol Lou Reed Velvet Undergound John Cale 

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