Ci risiamo con il solito pezzo sul metal che muore. Se lo stomaco regge, però, c’è da rimanere un attimo sul pezzo per capire perché, questa volta, forse è quella buona. Anzi, cattiva.
Sicuramente non è la prima volta che vi siete trovati al capezzale del metal. In questi casi, di solito le reazioni sono due. La prima è quella di disgustata noia, visti i fiumi di pagine che sono stati scritti su questo argomento addirittura da prima dei Beatles a oggi. Pagine, almeno in buona parte, chiaramente inutili, alla luce dei mirabolanti act prodotti dal genere (e da tutti i suoi sottogeneri) negli ultimi 40 anni. La seconda, invece – complementare e forse genuinamente antitetica – è di sana preoccupazione per quello che è successo alla musica pesante da qualche tempo a questa parte.
Nel dicembre 2011 scrivevo questo pezzo sul fatto che la macro-rivoluzione del web fosse in atto e – almeno negli US – avesse appena finito di spazzare via tutti i megastore di dischi, Virgin in prima battuta. A distanza di quasi dieci anni possiamo tranquillamente affermare che quello fosse solo l’antipasto. Torno regolarmente a New York per lavoro e far visita a un paio di amici. L’ultima volta mi sono preso le mie due ore di tempo libero per una passeggiata a Bleecker Street e cercare di rimestare un po’ fra vinili, CD, bootleg e poster d’epoca. Ebbene, ormai anche i negozi vintage sono spariti dal Greenwich Village. Tutti gli eroici rivenditori che erano lì a testimonianza dei 40 anni d’oro della musica distorta sono evaporati. Non c’è rimasto più nulla. Niente se non svariati prodotti hypsteroidi e chincaglierie inutilmente cool sfornati dalle varie startup locali, accanto alle consuete grandi firme.
È interessante notare che alcuni appassionati cominciano a identificare una generica “fine del rock” intorno all’anno 2010. Il 2010 è stato il primo anno nel quale tutte le statistiche sulle hit chart hanno registrato l’assenza di singoli o album appartenenti al genere rock propriamente detto. Laddove dentro la categoria vengono inseriti tutti quegli artisti che fanno uso di chitarre elettriche/distorte. La definizione è quantomeno grossolana, senza considerare il fatto che qui si sta, più nello specifico, parlando di heavy metal, e i metallari di un paio di generazioni fa contesterebbero il concetto stesso di rock concepito come fenomeno da classifica. Diventato sì, ma concepito come tale, no. Il dato grezzo, però, rende adeguatamente bene l’idea ed effettivamente dal 2010 a oggi è stata un’ecatombe.
Quindi, cosa è successo? È stato in parte un’evoluzione cultural-demografica, in parte tecnologica. Le glorie dei tempi andati – più o meno nel ventennio d’oro, ‘70s e ‘80s – riempivano gli stadi nonostante un frequente pessimo rapporto con la stampa che garantiva scarsa copertura promozionale. Non solo Led Zeppelin, Queen e Pink Floyd, ma anche Iron Maiden, Mötley Crüe, Metallica, Slayer e Rush erano seguiti da legioni di fan, alla faccia dei giornali mainstream dell’epoca che sembravano concentrarsi su tutt’altro. Il metal era ribellione, abbattimento delle convenzioni, esagerazione, rabbia. Gli adolescenti di allora cercavano una rottura – non importa in che direzione – e la stampa faceva involontariamente il loro gioco, censurando da un lato e scandalizzandosi dall’altro. Il culmine di questo processo si è raggiunto negli anni ’90, quando le classifiche erano, sulla carta, dominate da pop e dance, ma a ben guardare ugualmente assaltate da grunge e metal, nonostante il relativo silenzio stampa.
Dall’inizio degli anni Duemila, tuttavia, succede qualcosa di totalmente paradossale. Il ciclone nu-metal invade le classifiche e gente come Limp Bizkit e Linkin Park – tradizionalmente ostracizzati dai veri defender – aprono in realtà l’orecchio del grande pubblico a tutto il metal, compreso quello considerato più estremo. Compaiono VJ di MTV con la maglietta dei Motörhead e in radio gira di tutto, compresi i classici dell’epopea thrash e glam degli anni ’80. L’heavy metal, da genere incredibilmente popolare ma fortemente osteggiato dai media, diventa ovunque una musica socialmente accettabile al pari di qualunque altra.
Il trend continua inarrestabile nella decade successiva, al punto che addirittura black e death metal vengono sdoganati. David Letterman ospita i Mastodon, Jimmy Fallon invita gli Slayer, i Metallica cazzeggiano con strumenti da bambini in tv da un lato e suonano l’inno americano negli stadi dall’altro, Ozzy Osbourne è protagonista di un pessimo ma divertente reality da milioni di follower, da Primark vendono le magliette degli Iron Maiden (e i fan si incazzano), i Dimmu Borgir vengono intervistati dalla TV nazionale norvegese e ci trasmettono pure un live con tanto di orchestra: l’heavy metal, costola tradizionalmente più ostica del rock, non è mai stato così mainstream.
Eppure non è mai stato nemmeno così in difficoltà. I concerti dei gruppi minori cominciano a essere seguiti da pochi appassionati, le vendite calano, i grossi nomi imbastiscono tour su tour per rifarsi dei magri introiti delle registrazioni e gli emergenti fanno una fatica terribile a farsi notare. Perché? Chiunque si sia preso la briga di andare a vedere cosa tira realmente al momento, troverà immediatamente la sua risposta. Il pubblico di oggi ha cambiato radicalmente gusti, inclinazioni e soprattutto anagrafica. Dopo la microrivoluzione emo di inizio millennio – passata tanto rapidamente come era arrivata – a farla da padrona sulle classifiche è tornato il pop più plasticoso, commerciale, e “tranquillo” (Dua Lipa, Ariana Grande ed Ed Sheeran sono fra i nomi più emblematici). Pop che, a onor del vero, in alcuni casi ha anche trovato modo di reinventarsi seguendo schemi nuovi e nettamente poco convenzionali rispetto agli standard del passato (vedasi il tornado del fenomeno Billie Eilish). Allo stesso tempo, per chi ha cercato l’ennesima via di fuga dalla superficie patinata della società dei consumi, la ribellione non si chiama più rock, ma trap, vaporwave o hip hop.
È successo, molto semplicemente (e in parte semplicisticamente), che quella che era la musica dei figli è diventata la musica dei genitori. Ormai si parla di “dad metal”. I Gen X e buona parte dei Millenial hanno cominciato a girare in giacca e cravatta e a partorire i Gen Z / Gen Alpha che dir si voglia. E questi ultimi hanno poco interesse a seguire le mode di madri e padri.
A vedere gli ultimi live di Opeth (2016), Dream Theater (2017), e Steven Wilson (2018) a Londra c’era un manipolo risicato di fomentati adolescenti circondati da un tappeto di cinquantenni. È sempre stato difficile per una generazione far appassionare ai propri idoli quella successiva e il metal non farà probabilmente eccezione. Gli adolescenti degli anni ’20 vogliono microfoni e sampling, sono attratti dai testi più che dal taglio della musica prodotta, l’immagine conta enormemente e non trovano particolarmente interessanti batterie, distorsioni, amplificatori Marshall. Prodotti come i film Bohemian Rhapsody e The Dirt, indubbiamente di grande qualità, trasudano tuttavia una nostalgia posticcia che mal si sposa con lo spirito di quegli artisti degli anni d’oro. Né con la filosofia del rock più in generale, che di tutto ha vissuto, finora, tranne che di compassione.
L’evoluzione tecnologica ha fatto il resto. Questo aspetto è forse meno specifico del metal in sé, ma è almeno in parte corresponsabile della sua dipartita dai gusti del grande pubblico.
Se gli anni Duemila hanno rappresentato la morte del CD, la decade dei ’10 appena giunta al termine ha cambiato ulteriormente le carte in tavola, spalancando le porte della fruizione in streaming a scapito del concetto stesso di “possesso” della propria musica. iTunes e Google Play – che sembravano essersi imposti come i nuovi padroni del mercato chiudendo definitivamente l’ossigeno a una vendita di supporti fisici già in coma – sono a ben guardare durati pochissimo e con pessimi dati di vendita, letteralmente defenestrati dagli ingombrantissimi Spotify, Tidal, Apple Music, Amazon Music ecc.
Siamo entrati in una nuova era. E se il consumatore rimane, spesso, vittima degli algoritmi che lo streaming detta, chi la musica la crea si trova costretto ad adattarsi alle regole di un mercato e di un pubblico radicalmente e concettualmente diverso. I musicisti di ieri usano goffamente social e smartphone, sui quali invece le nuove leve sono in diversi casi letteralmente nate.
L’esposizione di Facebook, Twitter, ma soprattutto Instagram e TikTok – l’ulteriore nevrotico sviluppo pervasivo del vuoto pneumatico di un’offerta social sempre più mirata all’immagine e zero al contenuto – è oggi quasi un mezzo per emergere nel melting pot di musica e talent show che ha finito per sfumare sempre di più i confini fra entertainment industry e music industry.
Il fiorire delle produzioni autonome erode ulteriormente introiti e visibilità. La frase “oggi chiunque può registrare un disco” non è mai stata vera come in questo periodo, ed enormi sono le difficoltà nel rinnovare un sound che sembra ormai aver detto veramente tutto quello che poteva dire. Le playlist su misura generate automaticamente hanno completato il quadro.
Così, a sopravvivere oggi sono due categorie di band: le vecchie glorie (che tireranno bene o male sempre, fino al ritiro dalle scene) o le pochissime nuove leve che riescono a lavorare sull’immagine e sulla resa visiva meglio dei loro maestri. Non è un caso che uno dei fenomeni del momento si chiami Ghost, un act sostanzialmente in odore di pregevolissimo hard rock, erroneamente accostato addirittura a progressive e black metal senza avere quasi alcuna caratteristica in comune né col primo né tantomeno col secondo. Ma la cui teatralità riesce a far breccia in un pubblico molto più vasto rispetto a tanti colleghi anche più talentuosi sul piano tecnico ma non così curati nell’impatto visivo.
Siamo sicuri, però, che sia tutto perduto? Non esattamente. Un intelligente editoriale del Guardian titolava «Rock is the new jazz», e, da quanto scritto fin qui, indubbiamente questo è il fenomeno a cui stiamo assistendo. Il metal piace ancora, riempie ancora stadi e festival, conta ancora legioni di appassionati. Questi fan rimangono fedeli sia alla band culto che al supporto fisico di riferimento, un po’ come i collezionisti di Miles Davis, e reggeranno la sopravvivenza del genere ancora per un po’. Tuttavia, sono anche anagraficamente sempre più avanti con gli anni e rappresentano ormai una frazione minoritaria degli acquirenti, che hanno diretto la loro attenzione verso qualcosa di diverso. Interessante, a questo proposito, che metallari e jazzisti si ritrovino fianco a fianco nel rivalutare il vinile come supporto, fenomeno alla base della sua rinascita (che comunque non è affatto numericamente impressionante come ci si aspetterebbe).
E tuttavia, oggi come ieri, forse la contaminazione ci salverà. Perché quello che è successo in ambito musicale nelle ultime due decadi è stato controbilanciato da un altro fenomeno, ossia l’esplosione dell’heavy metal a livello globale, soprattutto nei paesi emergenti. I risultati sono strabilianti. Il pubblico giovane è, in questi casi, ancora famelico di doppia cassa e distorsioni, essendoci venuto a contatto in tempi relativamente più recenti. A tal proposito risultano significativi non solo i sempre più intensi tentativi da parte delle varie band di organizzare tour anche in paesi precedentemente poco considerati, ma anche e soprattutto l’emergere di proposte che traghettano l’hard’n’heavy su territori inesplorati e interessantissimi.
Un esempio interessante sono i Bloodywood, indian street metal act secondo la loro stessa definizione, che su YouTube macinano milioni di visualizzazioni a video e che mischiano con disinvoltura heavy metal, rap e musica folk indiana in un connubio assolutamente unico.
Stesso discorso dicasi per i The Hu (mongolian heavy metal e 15 milioni di visualizzazioni), o i tunisini Myrath, nati nel 2001 e saliti alla ribalta con un metal dal flavour mediorientale molto affascinante.
Difficile dire, tuttavia, se il trend verrà invertito a livello globale grazie a questi sparuti esempi.
Per il momento, il resto vivacchia, ma, come detto più su, sta entrando nella fase “jazz”. Gli appassionati continuano a comprare i dischi e a riempire i concerti, ora nello spirito di un nuovo, paradossale elitarismo. Nessuno lo avrebbe previsto, trent’anni fa, ma era verosimilmente inevitabile. Guardando l’aspetto positivo, c’è da concludere che, per una volta, il metallaro medio può rivendicare testardamente la sua passione per una musica ora realmente “di nicchia” o “per pochi”. Anche se magari non nel modo in cui si sarebbe aspettato.
Ok, Boomers?
Giulio Anichini è, nell’ordine, musicista, metallaro, blogger, co-fondatore di un seguitissimo podcast che nonostante il nome scemo (“Il Pub del lunedì sera”, lo trovate su facebook) è solito ospitare un sacco di gente nota (ma niente musicisti, per il momento). Nel tempo libero esercita come neurochirurgo all’Imperial College di Londra.
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