«Non voglio essere come gli altri. Non ho ragione di sottomettermi». Così pare abbia detto The Upsetter a.k.a. Pipecock Jackson a.k.a. “Scratch” in un attimo di (probabile) lucidità. Se c’è un paradiso, ci piace pensare che abbia rivolto le stesse parole a chi lo attendeva.
Rainford Hugh Perry, meglio noto come Lee “Scratch” Perry, è morto a 85 anni lo scorso 29 agosto in Jamaica, dove spesso risiedeva quando non era in Svizzera (il luogo che invece da un po’ ormai aveva scelto per vivere con la sua famiglia). Le cause della morte non sono state rivelate.
Penso che la musica sia eterna. Cura il cervello e il cuore, ti rende felice. Se la musica muore, moriremo anche noi.
Sembra uno scherzo del destino che il metronomo rock’n’roll per eccellenza Charlie Watts sia decollato verso altre dimensioni poco prima dell’ottantacinquenne Lee “Scratch” Perry. Così lontani, l’elegante gentleman e l’eccentrico Dr. Who caraibico, eppure così vicini per il policromo minimalismo e la capacità di modificare la cultura di massa. Certo: con un’ampiezza e una portata che non ha senso paragonare e stando uno nelle retrovie e l’altro sopra le righe, tuttavia ipotizzate la loro non-esistenza e interi capitoli della nostra musica saranno cancellati con un colpo di spugna.
Ostinato e contrario al pari di Sun Ra e George Clinton, anche Perry guardava in una coloratissima palla di vetro per raccontare l’avvenire. Più di costoro ha oltrepassato ogni limite con una disinvoltura che ha trasformato in estetica, nondimeno il look assurdo e le interviste surreali conterebbero zero se a monte non vi fossero dischi superlativi e uno shakespeariano metodo che tiene insieme le tessere del puzzle. Un giullare non avrebbe potuto mettere d’accordo gente disparatissima del calibro di Animal Collective e Bill Laswell, di John Lydon e Brian Eno, di Orb e Clash, di John Martyn e Beastie Boys. Né tantomeno avrebbe recitato da protagonista nell’evoluzione del pop.
Ribaltando prospettive e scandagliando il lato oscuro, “Scratch” è un genio dal pittoresco (e, per fortuna, soltanto in parte tragico) contorno di sregolatezze, un inclassificabile alieno, un diamante sfaccettato e preziosissimo. Però mai un cerchio chiuso, ecco. Di conseguenza, per capirlo davvero bisogna gettarsi dentro una discografia sterminata e abbandonarsi a un oceano amniotico di ritmo e suono, seguire le scie di certe comete che lo abitano, pigre e gassose ma allo stesso tempo di una concretezza rara. In questo flusso, a un certo punto tocchi un monolito nero profumato di ganja e benvenuta follia. Quel che accade subito dopo, lo sai fin troppo bene.
I miei dischi sono angeli. Non sono fatti di carne e sangue: sono spiriti.
Ne percorrerà di strada Rainford Hugh Perry dal giorno in cui accede in qualità di factotum alla corte di Clement “Coxsone” Dodd. Siamo a cavallo tra ’50 e ’60 e a Kingston il ragazzo arriva dalla campagna – significativamente, da una famiglia povera fortemente legata alle origini africane – portandosi dietro l’amore per jazz, R&B, soul e i sound system. Sveglio e intuitivo, fa rapidamente carriera al celeberrimo Studio One guadagnandosi il noto soprannome nel ’65 grazie alla hit Chicken Scratch.
Nella seconda metà del decennio litiga con il boss, inizia la prima di tante faide (epocali quelle con Bob Marley e Chris Blackwell) e passa al soldo del concorrente Joe Gibbs. Da uno sfruttatore all’altro, anche con lui ha da ridire e lo sbeffeggia in People Funny Boy, successone da decine di migliaia di copie e una tra le prime canzoni reggae. Messosi in proprio, fonda gli Upsetters e con una serie di etichette autogestite mantiene il controllo sulla sua musica, centrando i Top 5 britannici con Return of Django.
Lungo gli anni Settanta – la sua epoca d’oro – il Nostro pubblica e produce senza sosta. Nel ’71 gioca un ruolo fondamentale nel delineare il sound dei Wailers e nel ’73, allestita una sala di incisione nel giardino dietro casa che battezza Black Ark, sempre con gli Upsetters consegna Blackboard Jungle Dub, pietra d’angolo che dilata e rallenta ulteriormente le indolenti cadenze “made in Jamaica”. Di questa psichedelia in levare, ricavata dalla sottrazione di elementi e giocata su trame ipnotiche intricate a dispetto dell’asciuttezza, è tra gli inventori e soprattutto ne sarà l’insuperabile maestro.
Annotazione sufficiente a spiegare una figura di assoluta importanza, poiché nel frattempo il dub ha conquistato un’autonomia di genere e ha contaminato rock ed elettronica anche dal punto di vista metodologico. Da benefico virus, si è diffuso ovunque tramite un’innovazione istintiva che pone l’accento sull’aspetto ritmico e utilizza consolle e registrazione come strumenti. Di tutto ciò Perry pone le solidissime basi e addirittura – allorché taglia, cuce e rimonta brani tra loro diversi ricavandone qualcosa di nuovo – anticipa l’hip hop ed eleva l’(auto)citazione ad arte. La corazza di follia nasconde una genialità che lascia a bocca aperta e spalanca porte su altri universi.
Di fronte a tanta grandezza, anche le millanterie svelano un anello della catena che dai bluesmen prebellici conduce ai rapper. Che importa se Robert Johnson si vendette o meno al demonio? Lo stesso vale per le venti piste offerte dagli extraterrestri in aggiunta alle quattro del Black Ark: l’aneddoto è fantastico perché la leggenda è una dub version della realtà. E così sia. Se plasmi la storia, ben vengano le interviste condotte tra rime, giochi di parole e lazzi labirintici che paiono estratti dai medesimi capolavori in cui un’ilarità sorniona stempera tensione e stordimento.
Sono un principe e la musica è la regina.
Tra le mura del Black Ark, l’artigenio perfeziona un linguaggio sperimentale in parte innato e in parte frutto di una creatività inversamente proporzionale ai mezzi di cui dispone. Da pioniere primitivista, sistema i microfoni davanti al televisore per catturare la voce del tenente Kojak o li infila nel water per simulare un credibilissimo temporale, altera i nastri passandoci sopra le dita, intreccia corde, ottoni e rumori con l’aspetto di punti interrogativi. Rispecchiando la sua complessa personalità, l’equilibrio tra misticismo e alienazione restituisce uno stile astratto però pure terrigno, dove echi e riverberi risultano complementari all’abbraccio di basso e batteria cui si fondono.
Una volta entrati, risulta impossibile uscire da questa giungla. Come in un romanzo di Ballard, è un’entità pensante nel nucleo della quale pulsa un battito atavico e futuribile. Tu chiamalo, se vuoi, beat. Lo sentirai anche nel momento più buio di “Scratch”, che nel 1979 va fuori di testa sul serio. A pezzi per l’iperattività e un matrimonio a rotoli, è lasciato contrattualmente a piedi dalla Island: preda di una paranoia alimentata da alcool e cocaina, brucia il Black Ark – più prosaici, i fatti narrano di un corto circuito dovuto all’incuria – con lo scopo di «ripulirlo dagli spiriti che lo infestano», poi incide deliranti graffiti sulle macerie ed emigra in Europa.
Per una decina di anni vivacchia tra Amsterdam e Albione, affronta il declino e ricompone i cocci finché risorge nel 1987 con il discepolo Adrian Sherwood e il magnifico Time Boom X De Devil Dead. I Novanta si aprono sui pregevoli From the Secret Laboratory e Lord God Muzick e il definitivo trasferimento in Svizzera, dove mette su una nuova famiglia con l’ex proprietaria di un bordello che funge da manager, pubblicando dischi di gradevole routine interrotta da occasionali zampate (su tutte Return from Planet Dub, dove rivisita il passato con buona mano assieme ai Dubblestandart e ad Ari Up), strizzate d’occhio al dubstep e un altro incendio che distrugge il “laboratorio segreto”. Infine un cerchio lo chiude, spegnendosi a sorpresa in un ospedale della sua isola. Unanime il cordoglio, è acclamato come una divinità. Legittimamente.
Avanza un po’ di spazio per qualche consiglio a eventuali neofiti. Se le splendide cornucopie antologiche I Am the Upsetter: The Story of the Lee Scratch Perry Golden Years e Arkology rappresentano un’eccezionale infarinatura, tra gli album spicca – oltre ai titoli già citati – il fenomenale trittico dipinto tra ‘76 e ’78 con Super Ape, Roast Fish, Collie Weed and Corn Bread e Return of the Super Ape. L’inconfondibile produttore conosce apici nel giovane Marley fotografato in African Herbsman, nell’accorato Max Romeo di War Ina Babylon, nel bellissimo feticcio punk Police & Thieves di Junior Murvin, negli Heptones di Party Time e nei Congos ultraterreni di Heart of the Congos. Sappiate che si tratta dello stretto necessario e che un ascolto basterà per essere sedotti e voler sapere sempre di più su un talento unico e immenso.
Che Jah lo protegga, nei secoli dei secoli.