Naturali ricongiungimenti, a lungo attesi.
Quello che vede il ritorno di Bruce Dickinson e di Adrian Smith è considerabile quasi sicuramente come l’ultimo grande disco degli Iron Maiden, tranquillamente annoverabile – tenendo conto delle epoche – come un piccolo capolavoro. A distanza di vent’anni dalla sua uscita conserva tutto il suo fascino intoccabile di uno di quei ritorni per cui rendere grazie al cielo e a tutti i demoni del caso.
Subito dopo il mitico DVD/CD Rock in Rio confermerà la cosa, con una band al pieno della forma, un sound tornato vitale e al passo coi tempi, che si permetteva di suonare le prime sei tracce del disco nuovo, riuscendo completamente – quasi solo con quelle – ad appagare ogni palato fanatico.
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Se alcuni dei pezzi del disco sono diventati oggi a pieno titolo dei Maiden classics, come Blood Brothers o The Wicker Man, all’appello live, però, sono sempre mancate almeno due altre perle del disco. Una è la conclusiva The Thin Line Between Love and Hate, poetica e malinconica, forse troppo ruffiana per avere tutte le carte in regola per spiccare al suo pieno. L’altra è appunto The Nomad, le cui trame desertiche riecheggiano ancora nei cuori degli aficionados, spiaciuti di non aver mai avuto l’occasione di assaporare la parte centrale del pezzo da sotto il palco.
L’ispirazione melodica – pur contenendo naturalmente emblematiche le carte di sempre – gioca il suo sentore un po’ tuareg e un po’ Lawrence d’Arabia, esemplificando una ricerca musicale che – quando avrebbe potuto anche semplicemente ricorrere al banale revival – sembra invece avere molte cose ancora da raccontare nelle decadi a venire.