La nobile perseveranza a non mollare.
In quarant’anni di carriera il mondo è certamente cambiato, e con lui musica. Così una band dalle radici punk inglesi arriva a diventare sempre più epicheggiante, progressiva e prolissa (ebbene sì, lo ammettiamo). Come tutte le cose che vivono, si invecchia di pari passo.
La stessa cosa sembra essere successa alla grande Russia, addormentata sui suoi vecchi fasti e piano piano assopita dietro alla coltre della Cortina di Ferro. La Vergine di Ferro, invece, vuole invocarne il risveglio: «Dance of the Tsars / Hold up your heads / Be proud of what you are», sul finale di un disco che invece dichiarava espressamente di non voler riserbare alcuna preghiera per i moribondi.
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No Prayer for the Dying, 1990, non è certamente un disco riuscitissimo in ogni sua parte, e per la prima volta in vent’anni si sente davvero la band arrancare, ma è dalla sua il fatto di voler tornare straightforward (come venne detto al tempo), togliendosi un po’ di dosso quella patina prog e “tastierosa” (che poi tornerà comunque a farla da padrona nell’ultima parte di carriera). Non sono moltissime le grandi canzoni che compaiono nella sua tracklist – fatto salvo per la piacioneria di certi singoli (comunque piuttosto deboli a paragone con tutti gli altri) e poco altro (ad esempio la title-track, la dimenticatissima Run Silent Run Deep o l’aggressiva opener Tailgunner).
Rimane nobile, comunque, la perseveranza al non mollare, al continuare a combattere. Magari, come in questo caso, trovando la bandiera di una qualche ideale madrepatria sotto cui farlo.