Forse l’apice compositivo degli ultimi dieci anni maideniani.
L’ultima decade di carriera discografica targata Vergine di Ferro non è sicuramente delle più memorabili ed esaltanti, e tutto sommato non gliene si può nemmeno fare una colpa. Vero è che Dickinson non ha mai abbassato tonalità e – pur sopperendo col cuore alla parte – risulta tante volte (troppe) decisamente indietro col passo. Il debole The Final Frontier non ha certo brillato particolarmente per estro compositivo, regalandoci più o meno scarti dei dieci anni precedenti. Si ritrova qualcosa dell’ispirazione originaria in pochi pezzi, come Where the Wild Wind Blows o Coming Home, la cui intensità è stata parzialmente recuperata anche nel successivo – e ultimo tuttora – album, The Book of Souls. Molto apprezzato, questo, dalla critica, ma più per il bene che ha voluto alla band che per un’effettiva validità specifica.
Il disco, infatti, è un doppio album e già per questo sembra quasi impossibile possa contenere materiale veramente all’altezza per tutta la sua ora e mezza abbondante. Molto – forse troppo – è il minutaggio trascurabile, fatta eccezione forse per la title-track, l’opener e poco altro. Ed è un vero peccato perché queste – con i 18 minuti di durata dell’ultima canzone (la più lunga mai registrata dalla band) – potrebbero stare tra il miglior materiale Iron Maiden degli anni Dieci.
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Empire of the Clouds è l’epopea dell’airship R101 e del suo disastro nel 1930, e rappresenta, per la tematica, una quasi-prosecuzione di Death or Glory. Dickinson al piano (per la prima volta) è degno di menzione: sua è infatti la composizione portante e il testo, ma le idee più inventive (come la simulazione ritmica del codice morse SOS nel break) sono tutte a opera di una band incredibilmente estrosa, che si diverte seriamente dietro il suo ispirato cantore. La traccia regge incredibilmente la durata, vuoi per l’eroica leggenda del dirigibile e dell’impero di nuvole (simbolo di grande impresa celeste così come di inevitabile evanescenza), vuoi per una impostazione riassuntiva della “canzone-lunga-maideniana”, qui portata ad assoluto compimento.
Purtroppo, nell’ultima sezione tirata, la voce di Bruce fa veramente fatica a sostenere il passo e gli effetti che cercano di amalgamarla col resto rendono il tutto un po’ “tirato per i capelli”, ma è comunque vero che, complessivamente, si è di fronte a un pezzo che i fan si ricorderanno ancora per molto, oltre che uno dei vertici compositivi degli ultimi dieci anni maideniani.