Ok. Le canzoni dei Maiden le conoscono anche i sassi. Almeno certe canzoni dei Maiden. Sicuramente più di una è entrata nell’immaginario collettivo di molti rocker, qualunque sia il tipo di rocker di cui stiamo parlando. Sia quelli alle prime armi che quelli più rodati. Ma anche quelli che “sì, ma meglio i Metallica”. Oppure quelli che “solo roba estrema”. Quelli della sponda mainstream al grido di “che figo Virgin Radio” e quelli di un’intransigenza quasi hipster che “solo su cassetta”. Diciamocelo. Fear of the Dark e The Number of the Beast difficilmente sono sfuggite a qualcuno. E rimarranno per sempre nel novero di quei pezzi che, buttati in un discorso, permettono comunque di pararsi il culo e, all’occasione, passare per metallari più o meno D.O.C. a un tavolo dove si è gli unici a non essere vestito di nero.
Poi c’è un secondo livello, un po’ più solido, da ascoltatore non del tutto occasionale, quello che sa di cosa stiamo parlando e ha almeno ben chiara la tracklist di alcuni dei tremila Greatest Hits, Best of the Beast, Early Days e simili: Hallowed Be Thy Name, The Evil That Men Do, Run to the Hills, Flight of Icarus. Cose così.
E alla fine, ovviamente, si arriva al piano degli affiatati esperti, dei fanatici da concerto, degli estremisti dell’archivio, a cui la band ha spesso riserbato nel corso degli anni riproposizioni di brani leggendari, da sempre tenuti nel cassetto delle gioie più preziose, come The Rime of the Ancient Mariner, Infinite Dreams, Afraid to Shoot Strangers, Revelations o le più moderne Blood Brothers, For the Greater Good of God, Dance of Death e Pashendale – entrate a pieno titolo nel repertorio conosciuto da ogni cultore che si rispetti.
Da non dimenticare inoltre – lungi da noi! – i fan old school che “i primi due dischi sono i migliori” a prescindere. E bisogna ammettere che, dovunque si peschi in quel periodo – sia con Remember Tomorrow, Phantom of the Opera, Killers, Murders in the Rue Morgue and so on – i brani restano intoccabili, inattaccabili e senza ombra di dubbio memorabili.
Quello che invece raramente è scandagliato bene e con attenzione è un ulteriore sgabuzzino della soffitta di Steve Harris e soci. In mezzo al fiume in piena in cui scorre tutta la produzione maideniana (soprattutto quella degli ultimi vent’anni) c’è un filone d’oro quasi ancora parzialmente intatto, fatto di pezzi che di secondario hanno solo l’anno di uscita. Ed è proprio lì che siamo andati a pescare, come i più intrepidi pionieri. Ecco quindi i frutti di un lavoro di fino fatto di epici ricordi, un pizzico di fanatismo e una scorza di orecchio critico, antologico e filologico. Un modo un po’ diverso di celebrare opportunamente i quarant’anni della Vergine di Ferro.