I più importanti in assoluto? Può essere. Influenza, stile e attualità parlerebbero chiaro in tal senso, ma certo è che i Kraftwerk vivono in un universo parallelo dal quale seguitano a inviarci messaggi. Un universo dove il tempo, se esiste, è un eterno presente.
Inesorabile e puntuale come un maggiordomo che fa le polveri, il tempo spazza via aspettative, speranze e ricordi. In quest’era tribolata e surreale abbiamo perso il conto delle volte in cui, sbigottiti, ci siamo domandati quanti anni sono trascorsi da questa o quella data, da questo o quell’evento tragico. Loro passano senza ritegno e noi qui, a scansare colpi e ricordare dove eravamo e cosa stavamo facendo il giorno in cui uno dei nostri artisti preferiti ha lasciato questo mondo. Dietro di sé, la scia dorata dello straniamento che lo vorrebbe giovane in eterno e un’arte che spetta ancora al tempo, stavolta autentico gentiluomo, rispettare e onorare.
Venendo al punto, lo scorso 21 aprile segna un anno dalla dipartita di Florian Schneider, cofondatore dei Kraftwerk (il cui nome significa letteralmente “centrale elettrica”). Come, anche gli androidi muoiono? E da vivi sognano forse di raggiungere i loro antenati? Per lenire la ferita, piace pensare al momento in cui Florian si è definitivamente arreso al cancro come a un sogno che mette insieme 2001: odissea nello spazio e Blade Runner. Nella stanza settecentesca alla fine del mondo, sdraiato sul letto, un robot si sta spegnendo e racconta di aver visto cose che eccetera eccetera. Cose che non svaniranno come lacrime nella pioggia, essendo custodite in una musica avveniristica concepita dagli unici bianchi in grado di influenzare dei neri.
Una musica che è tuttora esempio tra i più fulgidi di pop artistico intriso di slancio innovativo, potenza comunicativa e di un’(auto)ironia di rado sottolineata, viceversa un elemento fondamentale che tiene a bada il compiacimento e la freddezza.
Per questo i dischi dei Kraftwerk, oltre che classici conclamati, suoneranno per sempre vivi. E, quel che più conta, vicini a chi ascolta. Per questo Schneider se n’è andato in punta di piedi. Per lui nessuna passeggiata nel deserto, nessuna bomba che lo riducesse in frantumi. Umano, dopo tutto.
Per spiegare l’importanza e la grandezza dei tedeschi basta abbozzare un albero genealogico. Se la popular music è tra le forme artistiche chiave del ventesimo secolo, non sono molti coloro che possono vantare il simultaneo superamento delle fondamenta che andavano ponendo. Proprio questa eccezionalità permette loro di essere tra i nomi più influenti di sempre sotto ogni punto di vista: suono, stile, immagine e metodologia contribuiscono a un’avanguardia fruibile superiore alla mera somma delle parti. Mentre new wave, synth pop, techno, house, hip hop e le rispettive ramificazioni sentitamente ringraziano, loro concedono il sorriso appena percettibile di chi sa il fatto suo ma rimane concentrato su ciò che davvero conta.
Altro segno del genio è l’innata abilità nel raggiungere platee tra loro eterogenee e distantissime, creando così degli estremi che finiscono per toccarsi come Planet Rock di Afrika Bambaataa, costruita sulla stessa Trans Europe Express usata da Madonna nei concerti per introdurre Music. Come il filo rosso teso tra aree industriali che connette la Ruhr alla Sheffield dei Cabaret Voltaire e a Detroit, dove i Belleville Three hanno forgiato la techno con una lega mista di Kraftwerk, George Clinton e James Brown. In ordine sparso, altri nomi egregi che a Ralf Hütter e Florian Schneider devono pressoché tutto: Yello, D.A.F., Ultravox!, Aphex Twin, Orbital, Daft Punk, Boards of Canada – solo per citarne alcuni.
Senza il dinamico duo, poi, il Bowie versione berlinese è inconcepibile, con tutto quel che ne deriva in termini di evoluzione del rock. Da lì alle imprese sul dancefloor di Giorgio Moroder, New Order (en passant: Ian Curtis era un fan, Siouxsie ha riletto Hall of Mirrors) e LCD Soundsystem la distanza è breve, misurata a bordo pista dalle traiettorie oblique dei Mouse on Mars, dalle partiture del Balanescu Quartet, dalla sagacia di Señor Coconut e dei fratelli Coen. Tutti riuniti dalla sinuosa sensualità di The Model, inarrivabile pop globale con decine di versioni che mette d’accordo Big Black e Cardigans, Rammstein e Giuliano Palma. La più bella in assoluto con tutta probabilità resta quella incisa da Snakefinger in un 1979 così lontano e, va da sé, così vicino.
Nei Kraftwerk c’è tutto. Anche il folk, se – com’è giusto che sia – intendiamo una musica del popolo per il popolo, e d’altro canto questo hanno sempre sostenuto di fare i due. Anello di congiunzione tra il Karlheinz Stockhausen frequentato a scuola, l’amore per funk, Beach Boys e Stooges e l’estetica protomodernista del Bauhaus, i loro album si collocano fuori da qualsiasi epoca tranne per il velo malinconico legato a un futuro impossibile dove la tecnologia ha trasformato il mondo in un luogo pacifico, pulito e ordinato. Nondimeno, se l’utopia è stata dissolta dalle nefandezze del capitalismo, ci possiamo consolare con un giro sul Trans-Europe Express o guidando lungo una Autobahn.
Prestando attenzione, l’ironia nella quale Ralf e Florian sono maestri è più un ammiccare sottile che una difesa. Tra le righe dei testi (al pari delle melodie, di semplicità soltanto apparente) si colgono chiari indizi di come le cose stessero prendendo una brutta piega. Quarant’anni or sono Computer Love spiegava che la vita urbana è un paradosso di gioiosa alienazione, con in mezzo il vuoto di solitudine che oggi riempiamo vanamente con bolle social, apparenza esasperata e accumulo compulsivo. L’uomo che muta in un macchinario parlava chiaro e avremmo dovuto ascoltarlo meglio.
Eppure c’è moltissima anima – sì: molto soul – nel modo in cui i Kraftwerk fanno cantare la tecnologia. Perché la spingono oltre i limiti, da visionari rigorosi che piegano il progresso all’espressività e non viceversa. Questo il senso di costruire uno studio di proprietà (il Kling Klang) per non dipendere da nessuno e avere costantemente a disposizione un laboratorio concepito come strumento. Un’officina dove lavorare dieci ore al giorno che poi porteranno persino sul palco, con la medesima chiarezza di idee che ha permesso loro di inventare e commissionare gli aggeggi che potessero aiutarli a realizzare ciò che ronzava loro in testa. Erano scienziati, certo, ma più estrosi e spiritosi che pazzi.
Un umorismo tagliente emerge infatti dalle interviste surreali, dai manichini usati dal vivo, nelle sessions fotografiche e nelle esibizioni televisive, da un’aneddotica in perenne bilico tra realtà e finzione. Particolarmente gustose sono le storie sul Kling Klang privo di telefono e il conseguente obbligo di chiamare altrove, in orari specifici, un apparecchio che – si dice – non avesse la suoneria. Oppure Chris Martin, che tramite i rispettivi avvocati chiede il permesso di utilizzare Computer Love e riceve una lettera con un “sì” scritto a mano. Infine Hütter, che quando incontra Michael Jackson per discutere di una possibile collaborazione si trova davanti dei sosia di Jacko stesso: manichini in carne e ossa, come in una specie di legge del contrappasso della robotica.
Faccende esilaranti e tuttavia stridenti. Spaventevoli come l’intervista ai fantocci condotta nel 1978 dallo spaesato Corrado a Domenica in, o il passaggio, di tre anni posteriore, a Discoring per eseguire Pocket Calculator. Paura, eh?
Poche cose spiegano un gruppo meglio dell’ascolto cronologico. Oltre a trattenere il piacere della fruizione, far sfilare un’intera discografia rivela spesso angolazioni inedite e, nel caso specifico, una progressione lineare che rende sempre più armoniosa la sperimentazione.
Incontratisi al conservatorio di Düsseldorf, Schneider e Hütter operano all’interno del nascente krautrock con gli Organisation, che a fine ‘60 pubblicano per la RCA inglese Tone Float, 33 giri con qualche spunto interessante ma poco indicativo della grandezza a venire. L’ensemble si separa e l’epifania giunge durante una mostra di Gilbert & George, sardonici personaggi in giacca e cravatta che portano l’arte nella vita di tutti i giorni per poterla indagare. In un radioso lampo, anche quest’altra strana coppia decide di darsi a un’arte innovativa e popolare.
Con la nuova ragione sociale accolgono Andreas Hohmann e Klaus Dinger, allestiscono una sala prove che gradualmente diventa studio e rimediano un contratto con la Philips. Al numero sedici di Mintropstraße sfacchinano assieme a Conny Plank, autentica eminenza grigia della stagione kraut e nel biennio ’70-’72 approdano a una mescolanza di organico e sintetico. Sin da copertine simili, Kraftwerk e 2 dispiegano concezioni seriali di art rock: assente il basso e sistemata la chitarra nelle lontane retrovie, tastiere assortite e flauto sono trasfigurati da effetti e marchingegni elettronici. Tra bordoni e cacofonie, accenni melodici e ritmi meccanici, anticipi di industrial e noise che faranno scuola, si apre una parentesi.
Michael Rother rimpiazza Hohmann e, spalleggiato da Dinger, cerca di introdurre un minimo sindacale di rock. Schneider ci sta, Hütter abbandona. Dopo sei mesi, una scissione vede Klaus e Michael fondare i Neu! e gli altri ricominciare da 2. L’artwork dell’esordio è replicato con variazioni minime, laddove il contenuto smussa qualche angolo porgendo una Klingklang che porta via l’intero lato A, si spartisce con Family Affair di Sly & the Family Stone la prima apparizione di una drum machine nel pop e spalanca vedute su Autobahn.
Un annetto ancora e spetta a Ralf & Florian completare la metamorfosi con pregevoli esotismi, il Minimoog e il synth EMS acquistati a peso d’oro, una voce filtrata nel vocoder. La bellezza di Tanzmusik e di Ananas Symphonie appartiene a congegni umanisti, al meta-pop dal quale stanno per nascere quei Kraftwerk.
Proprio per questo motivo, il salto compiuto nel 1974 risulta in retrospettiva meno netto. In fondo non è neppure un salto, semmai un grandissimo passo. Per chiunque. Abbandonate asprezze che disconosceranno in una cancel culture applicata a se stessi, i due ne inglobano i principi in una compiutezza di opposti, perché i Kraftwerk sono loro e basta, anche se Plank benedice il viaggio sull’autostrada. Difficile che la tematica di Autobahn sia casuale, prova ne sia che le opere successive inscenano degli agili concept e che, ispirato dai 20 chilometri che separano casa dal Kling Klang, Ralf punti a restituire ambienti e sensazioni, mezzi e finalità del tragitto in automobile. Ne ottiene una composizione che dura una facciata di LP – poco più di un minuto per chilometro! – sospesa tra descrizione oggettiva e allegoria postmoderna.
Di conseguenza assume significati profondi un brano che, dopo la breve introduzione ambientale/effettistica, dipana memorabilità maestosa eppure minimale incastrando le tastiere su un rotondo basso sintetico. È l’ipnosi indotta da un viaggio dove il paesaggio sfuma in stati d’animo e viceversa, dove, una volta giunti a destinazione, la stanchezza prevale sull’entusiasmo trasmesso dalla ripetizione del verbo “viaggiare”, che in tedesco si dice fahren però somiglia molto al fun dei Beach Boys. Manca solo la “k” del funk e l’equivoco è talmente efficace da indurre a pensare che sia voluto. Di certo aiuta a trasformare la versione accorciata su singolo in un successo, e lo stesso dicasi per l’album, che porta l’avanguardia elettronica al quinto posto della chart di Billboard aggiungendo una Kometenmelodie che passa disinvolta dai Tangerine Dream ai Depeche Mode, l’inquietante Mitternacht, l’Arcadia mitteleuropea di Morgenspaziergang.
Il disco rappresenta uno spartiacque anche per gli artefici, che salutano Conny archiviando gli ultimi scampoli di tradizione e lo status di culto. Al successo rispondono con intelligenza, investendo soldi nel Kling Klang e ospitando per un po’ il pittore Emil Schult, alunno di Joseph Beuys che scrive testi, funge da manager e dal terzo LP cura una grafica che per il progetto è basilare. Cavalcando il clamore, nel ’75 si esibiscono in Inghilterra e Nord America con i nuovi arrivati Wolfgang Flür e Karl Bartos, dopo di che Radio-Activity inaugura l’accordo con la EMI in una cerniera tra l’anima avant e un concetto inaudito di canzone. Se nella prima categoria rientra una manciata di bozzetti in tutti i sensi sintetici, a imporsi sono l’omonima ipotesi di Pink Floyd al silicio, la nervosa elegia Radioland, una danzabile Airwaves in cui Brian Wilson inventa il techno-pop, una Antenna che insegna il mestiere a Soft Cell e O.M.D. e il cosmico commiato Ohm Sweet Ohm. Benvenuta, maturità.
Gli altri capolavori Trans-Europe Express e The Man-Machine sanciscono l’apoteosi in cui Ralf primeggia sotto il profilo compositivo e Bartos si ritaglia spazio. Due anni servono per confezionare il primo, incentrato sull’immaginario europeista tra le guerre e su strutture che si asciugano senza rinunciare al dettaglio. Approfondita la trance ritmica in Europe Endless e nella suite del secondo lato, la trasparente The Hall of Mirrors e l’irresistibile alienazione di Showroom Dummies meditano sul rapporto tra realtà e apparenza mentre il fenomenale electro funk della title track non fa prigionieri. Nell’anno del punk, ognuna già ne delinea il post.
Con pari persuasività The Man-Machine replica esito e concetti in una copertina ispirata al costruttivista El Lissitzky, nelle atmosfere crepuscolari del brano omonimo e di Neon Lights, nella disco music siderale di Spacelab e Metropolis, nel pop retrofuturista definitivo di The Robots e The Model. Dopo un tale dispiego di idee, i tecno-alchimisti hanno bisogno di riposo.
The Man-Machine ha l’unico difetto di cristallizzare un linguaggio. Il seguito testimonia il graduale affievolirsi della pulsione creativa in prolungati silenzi e nel canone che affronta una concorrenza agguerrita. Perché non si può rivoluzionare l’arte per sempre. In altri termini, il pop ha assimilato i Kraftwerk, i quali adesso sono storia scritta e non più futuribile pagina bianca. Ciò non inficia la qualità dei manufatti, specie un Computer World che nel 1981 analizza pro e contro della quotidianità dominata da Numbers e Pocket Calculator, sfoggiando mirabile economia d’insieme e lo splendore dolceagro di una title track dal modernissimo telaio ritmico/melodico e la Home Computer campionata ovunque e a più riprese. Quando i teutonici concludono l’ennesimo tour in cui la tecnologia serve a improvvisare su pezzi a questo punto notissimi, uno sfinito Ralf diventa vegetariano e si appassiona al ciclismo.
La compagnia si adegua, traffica attorno a un LP intitolato Technicolor ma cambia idea per timore di cause legali. Dal ribattezzato Techno Pop estrae il singolo Tour de France, dimostrazione che l’interesse di Ralf è pura ossessione e che tra androide e umano è il secondo a vincere. Di fatto entrambi vanno incontro a un cortocircuito: il gruppo rifiuta un disco incentrato sulle due ruote (per ascoltarlo attenderemo il nuovo millennio) e un trauma scalfisce la freddezza e l’autocontrollo di Hütter. Mentre pedala dalle parti del Reno, in primavera incappa in un incidente, finisce all’ospedale e lo operano alla testa. Qualcosa cambia, benché il diretto interessato – peraltro rassicurante come HAL9000 prima di dare di matto – abbia sempre sminuito una vicenda misteriosa che ricorda la presunta morte di Paul McCartney. A un certo punto la domanda sorge spontanea: l’avranno davvero rimpiazzato con un automa?
Facezie a parte, Techno Pop resta in animazione sospesa e si risveglia come Electric Café nel 1986, allorché il plotone sta per riprendere i campioni in fuga e i modelli in camicia rossa e cravatta nera paiono avanzi di un negozio di provincia. In realtà si tratta di un diversivo: nel momento in cui la vita inizia ad accelerare dissennatamente, i Kraftwerk rallentano. La perfezione dalla loro parte, chiudono il cerchio e, ispirandosi agli ultimi giorni della mutant disco e alle produzioni di Arthur Baker, reincidono in digitale materiale poi mixato con François Kevorkian. Il risultato è accolto con educata freddezza, nonostante i mantra cyber-groovy Boing Boom Tschak, Musique Non Stop e Techno Pop rivelino un cuore che batte.
La vicenda avrebbe potuto terminare incastrandosi su questo infinito loop, ma siccome siamo alle prese con talenti anticonvenzionali Ralf prosegue sempre più solo, incurante persino del forfait di Schneider. Come la coscienza artificiale del Grande ritratto di Dino Buzzati, il “sistema Kraftwerk” inizia ad assumere l’aspetto di un organismo autonomo che sostituisce i pezzi inservibili e gestisce un patrimonio estetico inestimabile.
Tra tournées e ristampe, traslochi dello studio e aggiornamenti di hardware, il lapalissiano e superfluo The Mix e il live Minimum-Maximum, nel 2003 Tour de France porge il dolce stil (retro)nuovo che illumina la legittima autocelebrazione. Con classe e garbo, ricorda che le luci della centrale elettrica non si spegneranno finché ci saranno cervelli disposti ad ascoltare. Umani, prima di tutto.
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