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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Ti amiamo forte e duro, Ian Anderson

Una dichiarazione d'amore per il leader dei Jethro Tull.

Ian Anderson e il suo talento. Il suo genio e il suo egocentrismo, da sempre a braccetto e l’uno vitalmente necessario all’altro. Al suo servizio, una band eccelsa, negli anni criticamente acclamata ma sempre all’ombra di giganteschi clichés che è arrivata l’ora di sfatare.

L'eco di Jethro

Li avrete letti anche voi. «Il magico pifferaio torna a incantarci», «atmosfere medievali» e cose così. I Jethro Tull sembrano essere spessissimo vittima di quello scenario descritto da Umberto Eco quando si immaginava lunghe meditazioni dei titolisti che dovevano parlare di lui, i quali poi se ne uscivano immancabilmente con roba come «l’eco di Eco» o «un libro che fa Eco», peraltro convinti di aver avuto un colpo di genio. Complice pure il fatto che Ian Anderson, da bravo scozzese, ha un certo senso dell’imprenditoria e tende a marciare molto sugli aspetti istrionici della sua figura (da sempre, ma ancora di più in età senile). Basta guardare quanto ci ha sbattuto in faccia il logo con la sua silouhette capellona e one-leg standing.

Bene, questa è una dichiarazione d’amore al suo genio, nella quale d’ora in poi non verranno più usati i termini “pifferaio” e “Medioevo”, e nemmeno si farà mai riferimento a Bourée. Parola di lupetto.

Parafrasando Il ritratto di Dorian Gray: bello avere un logo che (non) invecchia al posto tuo.

Really don't mind if you sit this one out

Primo mito da sfatare: i Jethro Tull non sono un gruppo progressive rock. O almeno, fino a dopo Aqualung non volevano esserlo (al di là del fatto che il progressive non esisteva ancora, tutt’al più qualcosa cominciava a venire chiamato art rock). Poi i critici ti vedono un barbone in copertina («forte critica sociale»), una frase come «in the beginning, Man created God» a introduzione dell’album, e dicono una cosa tipo: «ora Ian Anderson vuole anche farci pensare!», come se poi il testo denso di immagini di una Nothing to Say, per dirne una, non facesse pensare abbastanza. E da lì in poi giù di incasellamenti frettolosi e pretese concettuali. Senza che nessuno si accorga che, in effetti, tutto il successivo Thick as a Brick – forse il più fresco, brillante, esplosivo della band – nasce come una grossa presa per il culo in risposta.

Sono gustosissime queste beghe inizialmente stupide che poi portano a roba come Sweet Home Alabama, che, se fossimo giovani, oggi chiameremmo un dissing nei confronti di Neil Young. Nel caso di Thick as a Brick ci hanno regalato una fra le più stupefacenti opere del genere di cui voleva ridicolizzare gli eccessi, costruita su un unico enorme brano di 40 e più minuti con cambi di tempo esagerati, follie dinamiche, intrecci magnificenti e uno stuzzicante, sardonico concept sull’ottenne Gerald Bostock che scrive un incredibile poema epico, ma che per via di un’imprecisata parola oscena si vede revocare il primo premio al concorso di poesia scolastico, premio che va così a una bimba carina, bionda e patriottica.

Una cosa che, nonostante parta da queste premesse, riesce a rimanere scorrevole e inebriante come una boccata d’aria fresca per tutta la durata.

E tutto senza drogarsi, signori!

I'm a one-band man

Che poi quella pletora di impulsi disordinati che oggi viene chiamata, appunto, progressive rock venga riscritta anche dai Jethro Tull, è chiaro. Ma in un modo tutto loro, parco di tastiere e intarsiato di chitarre come un lavoro in legno. Ian Anderson è il fattore folk, l’acoustic guy dalla voce penetrante, rauca, profonda, da qualche parte tra il pirata, il satiro e il vecchio bardo.

Il fatto è che a volte ci si scorda che si parla di una band e non di un personaggio. Tanto che i superficiali arrivano a identificarli, pensando che in effetti Jethro Tull sia il tizio su una gamba sola che suona il flauto, invece che un agronomo del XVII-XVIII secolo, inventore della seminatrice automatica, il cui nome “suonava bene”.

Ladies and Gentlemen, ecco a voi il vero Jethro Tull – come vedete nessuna traccia di pifferi o cose simili.

Anzi, in quella grande casa di legno vecchio che è il contenitore Tull ci sono passati a bere uno o più whisky torbati una serie di musicisti veramente della madonna. Barriemore Barlow, batterista osannato da John Bonham e Neil Peart (e scusate se è poco). Il rutilante John Evan(s), tastierista e cappellaio matto. David (poi Dee) Palmer, con un curriculum accademico da far paura. Dave Pegg, condiviso con i Fairport Convention, Glenn Cornick, la macchina da guerra Clive Bunker, John Glascock, il violinista elettrico e tastierista Eddie Jobson. E Martin Barre, chitarrista che in qualsiasi altro gruppo avrebbe brillato, qui nel ruolo del più resistente alle visioni e alla personalità di Ian, spesso ingombranti.

Tutti comunque schiacciati, fagocitati dall’ombra di un cantante, chitarrista e flautista autodidatta, che in anni più recenti ha litigato pure con il suo fedele scudiero Martin, e a oggi va in giro con il discutibile stage name di Jethro Tull’s Ian Anderson.

He brewed a song of love and hatred

C’è un disco che spiega bene come il maledetto scozzese sia un buco nero vorticante di carisma che annichilisce tutto ciò che passa nella sua orbita. E potrebbe anche essere il disco dei Jethro Tull, se mai esistesse una cosa del genere. L’essenza della band è una forza misteriosa, camaleontica ma prepotente, e si è infilata come un fluido magico dentro tutti i macrogeneri conosciuti all’uomo, piegandoli a sé. Blues, hard rock, gighe tradizionali, jazz, world music, classica, addirittura il synth pop e l’elettronica, niente è stato risparmiato. Un buon riassunto però potrebbe essere Minstrel in the Gallery.

È un album ombroso, laterale, pieno di sottotesti, sarcasmi amari e ironie tongue-in-cheek tipiche di Ian Anderson, e a tratti spudoratamente intimista. Tutto che viaggia su due binari opposti: l’hard-prog più gradasso che sentirete da parte di Martin Lancelot Barre (qui in pieno sfogo ormonale chitarristico) e dall’altra parte un folk raffinatissimo, fatto del tocco di seta di Ian sull’acustica e di un quartetto d’archi. Tutto che convive molto più naturalmente di come uno si aspetterebbe.

«The next song deals with the interesting subject of how you're all out there, sitting down, watching, and we're standing up here... watching. And none of us know which side we're on» – ecco la title track, un buon riassunto del riassunto.

Un disco che, a tutti gli effetti, è lo Ian Anderson show. Testi fulminanti, mitologie nordiche smontate (Cold Wind to Valhalla), descrizioni sonore dell’ultimo orgasmo di una relazione (Black Satin Dancer), ballate struggenti (Requiem), ma anche lucide e agrodolci (come si fa a non amare una canzone d’amore che si chiama One White Duck / 0¹⁰ = Nothing at All?), epiche londinesi degne di Joyce e visionarie che manco Wim Wenders (Baker St. Muse – 16 minuti di puro godimento e trip metropolitano), e un senso di autoconsapevolezza che attraversa tutto il percorso (chi può mai essere il «minstrel» che sta «in the gallery», cioè sulla balconata, buttando di sotto le sue verità senza essere capito?). Roger Waters con quell’autocoscienza ci ha scritto The Wall, Ian Anderson ha fatto qualcosa di più shakespeariano: uno scrigno che ha bisogno di essere aperto con la giusta chiave per essere goduto. Bisogna seguire gli spigoli di quest’anima contorta e oscura che si nasconde dietro la maschera del buffone, del giullare di corte, del bardo e del superuomo accentratore. Ma poi ci si trova l’oro vero, che dura nel tempo.

Drugo voleva solo il suo tappeto. Nessuna avidità. È che dava... un tono all'ambiente.

Dance with the War Child, hoorah

Se a Ian davate un palco, lui faceva il fuoco. Sostenuto dalla maestria dei musicisti di cui si circondava, entrava nei suoi cento ruoli e costumi, creando visioni paniche e riti pagani pieni di energia sessuale, anche se più consapevoli e raffinati di quelli di Hendrix o degli Stones.

Del resto Ian Anderson ha sempre odiato gli hippie, e come Zappa era incarognito contro tutte le sostanze stupefacenti che non fossero sigarette a ripetizione e whisky invecchiato in botti di rovere. È difficile da credere vedendolo a inizio ‘70 – mantella scozzese, calzamaglia gialla aderente e un bosco di capelli – ma è così. Del resto non aveva bisogno di drogarsi. Avere le folle in pugno gli riusciva benissimo anche al naturale, così come raggiungere stati alterati di coscienza senza aiuti esterni, tanto che pare si sentisse così elettrico e ipersensibile dopo un live da non voler essere toccato.

Io mi drogo di musica. Ho sempre pensato a suonare bene. Andare sul palco strafatto non è mai stata un'opzione per me. […] Tre o quattro minuti prima del concerto la temperatura corporea sale, il cuore batte forte e l'adrenalina va a mille. (Ian Anderson)
Hippie io? Ma siete pazzi?

Sull’autoironia di vivere sul palco, inebriato dal potere che aveva sulle persone, Ian ci ha giocato tante volte. In War Child vive la vita parallela dello showman e del soldato in guerra, tutti e due vittime compiaciute di una rappresentazione. In Too Old to Rock ‘n’ Roll, Too Young to Die fa un dito medio alla critica voltagabbana già dalla copertina, e tutto l’album è un concept su una rockstar al tramonto, curiosamente somigliante a lui, con tanto di fumetto collegato.

E poi sempre nuovi trucchi scenici e travestimenti bizzarri lungo gli anni, come a dire che è solo spettacolo, però lo spettacolo è una cosa seria. Talmente seria da diventare una rappresentazione sacra: A Passion Play, massacrato nelle recensioni perché troppo esagerato e archiviato come una pisciata fuori dal vaso. Ma forse ci vuole una mente ancora più storta per fare questo strano viaggio attraverso l’inferno, nuotando in una cascata di immagini e simboli a oggi non del tutto decifrati.

Tell me
How the baby's made
How the lady's laid
Why the old dogs howl with sadness

Il mistero della nascita, il mistero dell’amore e del sesso, il mistero della morte, tutto in diciannove parole. Adesso non vi fa più tanto (o solo) ridere il vostro giullare, eh?

It'll make of you an honest man

Probabilmente voleva riprendere fiato quando è tornato alle sue radici scozzesi, in quella che è chiamata la trilogia folk: Songs from the Wood, Heavy Horses, Stormwatch. Il primo da odore di resina e camino, pieno di suggestioni popolari. Il secondo caldo e nostalgico, con in mezzo una piccola gemma sulla vita e sulla morte e storie di campagna e vecchia Inghilterra morente. L’ultimo cupo, attraversato dall’ombra della morte prematura di John Glascock e da un’atmosfera crepuscolare di fine decennio. Sono tre album bellissimi, più riposanti. Il piper rampante pare sentirsi vecchio a poco più di trent’anni.

E un po' ci teneva anche a sembrarlo.

Ci sarà altra bella musica, anche molto bella, qua e là, fino agli anni Novanta. Nonostante qualche scivolone elettronico (Under Wraps, a cui va riconosciuta una certa dose di coraggio). Nonostante problemi alle corde vocali e una voce che non sarà mai più la stessa. Nonostante qualche tentativo di ricostruirsela e di settare uno standard per gli anni ‘80, finendo per fare un po’ il verso ai Dire Straits (Crest of a Knave, che contiene la magica Budapest). Nonostante una stanchezza di fondo, forse il desiderio di essere meno uno showman e più un gentiluomo scozzese proprietario di un allevamento di salmoni.

Presto si ritirerà sull’isola di Skye, a coltivare una serie di hobby da trasformare in canzoni più tranquille e con meno pretese, su cui resta un’ombra di fascino. Con un avvertimento per tutti, però: che avere scritto “musicista” sulla carta d’identità, anche passati i 70 anni, per Ian Anderson ha ancora un senso preciso, e ce l’avrà finché campa.

One day I'll be a minstrel in the gallery

L’immagine che rimane fissa nella sua nicchia fra gli eroi del rock ha sempre la gamba alzata, suona il flauto, sgrana gli occhi e fa le facce buffe. È un ventitreenne capellone a capo di una strana band che viene dal blues inglese, che cambiava nome ogni settimana per farsi richiamare dai locali, finché non ha vinto l’agronomo. È Aqualung, il clochard dal respiro affannoso che guardava le ragazzine e ogni tanto se la faceva con una prostituta strabica. È il frame casuale su cui un personaggio ha costruito la sua azienda chiamata Jethro Tull. Né più né meno che una fattoria, o un allevamento di salmoni, appunto.

Per capire il resto serve avere una testa sghemba. Serve andare a spulciarsi i Chateau d’Isaster Tapes e Nightcap, sentirlo che ti canta nell’orecchio:

Look at the animals
Two by two
Aren't you glad to be one?

Serve spararsi Left Right, distorta e cacofonica, grunge vent’anni prima del grunge, introdotta da un orripilante pianto di bambini demoniaci:

When you breathe your last line
Will you make your exit stage left/stage right?
Well, you might decide while there's still time

Serve perdersi negli arpeggi di Salamander, respirare l’atmosfera fumosa di Bad-Eyed and Loveless, innamorarsi della magia surreale di Wond’Ring Again, capire chi sono i gelidi Back-Door Angels che regalano miracoli e disgrazie in base al lancio dei dadi.

Why do the faithful have such a will
To believe in something?
And call it the name they choose
Having chosen nothing.

Serve la voglia di entrare nell’universo di un uomo tutto sommato misterioso, sicuramente unico. E bisogna capire che il treno non si fermerà, perché non c’è modo di fermarlo.

Ma per il momento prendete posto, ché lo spettacolo inizia. Buio in sala, un occhio di bue. E il menestrello che, dalla balconata, guarda soddisfatto tutte quelle facce sorridenti, là sotto.

«Say my name». «You're Anderson». «You're goddamn right».

Ian Anderson Jethro Tull 

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