Valeria Sgarella, fresca autrice di un bel libro sulla storia della Sub Pop Records, ha incontrato i Mudhoney poche ore prima del loro concerto milanese dello scorso 23 novembre. Più che un’intervista, una rimpatriata fra vecchi amici.
Incontrare i Mudhoney non è difficile.
Dopo trent’anni di musica, dopo essere sopravvissuti all’onda lunga del grunge, dopo aver flirtato con il rischio su e giù dal palco, Mark Arm, Steve Turner, Guy Maddison e Dan Peters hanno ancora voglia di suonare in giro. E di fare conversazione.
Che tu sia o no un fan di lunga data, c’è sempre un posto nel loro camerino dal rider molto essenziale (ma con tanto vino bianco e una discreta fornitura di birra). E se vedi una bicicletta, è sicuramente quella di Guy: bassista, all’occorrenza, e infermiere presso l’Harborview Medical Center di Seattle, per mestiere. Perché a volte ci vuole un lavoro, oltre alla musica.
E anche se non sei un seguace di lunga data, stai sicuro che o Mark o Steve si ricordano esattamente di quando ti hanno visto per la prima volta. Forse quella sera di qualche anno fa al Bloom di Mezzago; o forse quell’altra volta, quando avevi chiesto a Turner dove avesse comprato il suo primo distorsore Big Muff.
Ho recentemente scritto un libro che racconta la storia della Sub Pop Records, la casa discografica per cui i Mudhoney incidono sin dagli albori della carriera. La cosa più logica, per me, sarebbe stata quella di incontrarli durante la stesura del testo. E invece no: li incontro a libro finito.
È la chiusura del cerchio.
Quando faccio il mio ingresso nella stanza dove faremo l’intervista, mi accolgono come una vecchia amica. E chiamandomi per nome. C’eravamo già visti in diverse occasioni; l’ultima a Seattle, lo scorso agosto, in occasione della festa per il trentesimo anniversario della Sub Pop.
In effetti, raccontare la storia della Sub Pop è stato come raccontare la loro, di storia. Di recente i Mudhoney hanno pubblicato Digital Garbage, il loro undicesimo album. Che non è molto diverso dai loro precedenti dieci. Sempre con quella mai sopita “cazzimma” da garage band del Nord Ovest Pacifico: tre accordi in croce, ma ben piazzati. E quel carico da mille che solo l’urlo primordiale di Arm e la batteria di Peters sanno dare.
Nonché la straordinaria capacità di plasmare canzoni (quasi) perfette con incisi che sanno di inni generazionali: «Touch me I’m sick», «We’d rather die in church», «I like it small», «Kill yourself live», «Fuck the planet / Screw your children».
Messaggi brevi ma incisivi, nella migliore tradizione punk.
La prima cosa che noti di Mark è il portamento. Dritto come un fuso. Si dice che da anni faccia uso di “gravity boots”, stivali che ti permettono di stare agganciato al soffitto a testa in giù. Dice che lo fa almeno un quarto d’ora al giorno, e che faccia bene alla circolazione e alla colonna vertebrale.
Si direbbe che la quiete è il suo elemento dominante, oltre all’umorismo nero. In realtà, ci sono tante cose che l’hanno fatto incazzare nel corso degli anni: Ronald Reagan, i poteri forti, il music business, le grandi corporazioni, gli avvoltoi che gravitano intorno al talento altrui. C’è stato un periodo, verso la metà degli anni ‘90, in cui i Mudhoney non incidevano per la Sub Pop, bensì per la Reprise (sussidiaria della Warner Bros.).
Il loro rapporto con la major si guastò quando ne venne eletto presidente Danny Goldberg: noto impresario musicale e presidente della Gold Mountain Entertainment (il management dei Nirvana). Goldberg ripudiò i Mudhoney perché a Courtney Love non era piaciuta una loro canzone intitolata Into Yer Shtik (da My Brother the Cow, 1995). C’era un verso che recitava «Why don’t you / blow your brains out too», «Perché non ti fai saltare in aria il cervello anche tu?». Un invito che Courtney aveva percepito come rivolto a se stessa.
Aveva capito bene.
Digital Garbage è un impietoso e sarcastico sguardo all’evoluzione digitale. Che, secondo Mark, è un’involuzione, perché partorisce tanti piccoli ominidi senz’anima e schiavi delle apparecchiature elettroniche. Titoli come Hey Neanderfuck e il già citato Kill Yourself Live la dicono lunga.
Un tema molto sentito, ultimamente, quello dell’estinzione del genere umano per colpa del selfie.
Davanti a me ora ho Mark e Steve. Quest’ultimo non era in programma, perché tra poco ha appuntamento per un’altra intervista, ma ci tiene a unirsi alla conversazione. Rompo il ghiaccio chiedendo che cosa significhi, nel 2018, essere ancora sotto contratto con la Sub Pop Records, dopo trent’anni di sodalizio. La risposta è scontata e intinta nel solito, incrollabile humor. «Perché nessun altro ci vuole».
Il concetto è chiaro: la Sub Pop è casa. «Possiamo fare quel che ci pare», è un’altra solida e lucida motivazione. «Speriamo di mandarli in pari, almeno con i soldi che hanno speso per farci incidere il disco», chiosa Arm in pieno stile Arm.
Quella tra i Mudhoney e la Sub Pop è una storia che dura dal 1 aprile 1988. All’epoca Arm e Bruce Pavitt, futuro fondatore dell’etichetta, lavoravano in una multinazionale di nome Muzak, produttrice di quella che si suol definire “elevator music”. In particolare, Mark era addetto al riciclo delle bobine e condivideva lo stanzino con un tipo enorme di nome Tad Doyle (sì, lui: il leader dei TAD).
Proprio lì, Pavitt ascoltò per la prima volta Touch Me I’m Sick e Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More in versione “home recording”. «Non era neanche un demo. Solo voce e chitarra in saturazione, registrate con un boombox». Allora Bruce consigliò a Mark di andare a incidere quei pezzi con il produttore Jack Endino, presso i suoi studi Reciprocal Recording.
Nasceva così il primo 45 giri dei Mudhoney firmato Sub Pop: Touch Me I’m Sick/Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More, appunto (numero di catalogo, SP18).
Con una tazza del cesso raffigurata in copertina.
La formazione era vagamente diversa da quella attuale: al basso c’era quel fenomeno di Matt Lukin che poi, nel 2000, sarebbe stato sostuito dall’australiano Maddison.
(Mentre parlo con Mark e Steve, seduta di fronte a loro in un piccolissimo stanzino che loro hanno ribattezzato “dressing room number one”, entrambi tengono in mano un calice di bianco. Fossero stati più giovani, probabilmente sarebbe stata una birraccia in lattina)
Come altre band prima e dopo di loro, anche i Mudhoney hanno avuto vita difficile con la Sub Pop. Nei suoi primi anni di vita, la casa discografica aveva grossi problemi di liquidità e rischiava di collassare praticamente ogni anno. I Nirvana se n’erano andati dopo il primo album, Bleach, esasperati dalla sua inefficienza (e, vabbè, diciamo anche attratti dall’allettante offerta della Geffen Records).
Nell’estate del 1991, Every Good Boy Deserves Fudge dei Mudhoney aveva praticamente salvato la Sub Pop da quel collasso, perché aveva fruttato abbastanza introiti per passare l’estate. Quando lo ricordo a Mark e Steve, non possono fare altro che confermare.
È opinione comune che sia stato il successo di Nevermind a salvare la Sub Pop, fungendo da traino al suo catalogo, ma è vero solo in parte.
Every… sarebbe stato l’ultimo album che i Mudhoney sotto Sub Pop, comunque. Troppo frustrante stare con un’etichetta che non ha manco i soldi per stampare i dischi. Troppo brutto quando gli amici non saldano i debiti.
E poi c’era una cosa, in particolare, che non andava proprio giù: invece di corrispondere loro i compensi pattuiti, la Sub Pop li convogliava negli studi di registrazione “fighi” per gli Afghan Whigs.
«Se avessimo saputo che alla Sub Pop spettavano delle percentuali sulle vendite di Nevermind, non avremmo lasciato». Questa, a posteriori, suona come un’ammissione di colpa.
Steve, nel frattempo ci lascia per l’altra intervista in programma. Espongo a questo punto a Mark una mia personale teoria: la Sub Pop, i Mudhoney e Seattle sono legati assieme da un filo sottile: il fatto di essere… in pari con il tempo presente. Di essere risorti dalle ceneri del grunge e aver riconquistato il mondo, facendo del progresso un nuovo trampolino di lancio.
Quel che voglio scoprire, in realtà, è se Arm è ancora contento di vivere nella sua città storica (Turner risiede da anni a Portland, Oregon). Seattle oggi non è più quel buco nero nel calendario dei tour manager di inizio anni ‘80. E non è neanche la città dei sogni di gloria dei 90’s. È una nuova e grande Silicon Valley, giocando nello stesso campionato di San Francisco, New York, Chicago e attirando cervelli in fuga da tutto il mondo. Amazon nasceva a Seattle nel 1995 e guarda adesso dov’è arrivata: a Poste Italiane.
«Noi abbiamo sempre accolto le persone che arrivavano dal resto del mondo. Erano le persone che non volevano venire a Seattle». Detta così, in questo momento, questa risposta trasmette un messaggio su più livelli.
Mark mi ricorda che, negli anni ‘80, coloro che arrivava a Seattle per lavoro erano per lo più ingegneri della Boeing, noto colosso dell’aviazione a tuttoggi presente in città. Il mercato immobiliare non era alle stelle. Amazon non aveva gentrificato l’area. Starbucks era solo una caffetteria e non una tendenza da inaugurare in grande spolvero con code chilometriche. Seattle era, in pratica, una “working class town”: una categoria che la band rappresenta in pieno.
Mark, poi, è un caso speciale: oltre a essere artista Sub Pop, ci lavora pure. Dal 2005 è responsabile della “warehouse”, il magazzino e reparto spedizioni. Se ordini dischi o merchandise dal Megamart, è molto probabile che la confezione sia fatta delle sue manine sante.
Mi diverto un po’ ribadendo il concetto di “manager”. Gli chiedo quante persone deve tenere a bada. Risposta: cinque. «Ma non c’è nulla da dirigere, perché tutti sono molto motivati e sanno quel che fanno».
Poi snocciola quell’aneddoto che ha raccontato in più occasioni, ma che a me fa sempre molto ridere: «Quando ho cominciato questo lavoro, sul contratto c’era scritto ‘warehouse manager’. Ma c’ero solo io. Dunque ero il manager di me stesso».
Arriva Bob, il tour manager, e mi dice che il tempo è scaduto. Proprio mentre Arm mi sta descrivendo la prospettiva che si ha dal suo osservatorio speciale: la “warehouse” Sub Pop, appunto. «Mi dà l’immagine di cosa venda e cosa no. I nostri dischi, no». E ride fragorosamente.
Mi rendo conto che lo dice più per amor di battuta che per convinzione. E poi va da sé: oggi come oggi, le vendite non le fai solo con i supporti fisici, ma anche con lo streaming. «Ah, ma nessuno guadagna con lo streaming».
In questa lapidaria quanto inverosimile asserzione, colgo una perfetta chiosa per la nostra intervista.
Grazie Mark, grazie Mudhoney. Ora andiamo a far bisboccia.
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