A pochissime ore dalla scomparsa, un ricordo di Franco Battiato, che Maestro lo è stato veramente e non per modo dire o piaggeria giornalistica. Un autentico “a sé” nel panorama musicale italiano, sfuggente e poliedrico. Inclassificabile secondo parametri normali, perché la normalità non ha mai saputo cosa fosse.
Perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te.
Alla fine se ne vanno, uno dopo l’altro, come le nuvole in un giorno ventoso. Forse aveva davvero ragione Holden Caulfield quando esortava a non raccontare per evitare di sentire la mancanza. Parliamo del vuoto in noi che rimaniamo ancora per chissà quanto a far i conti con l’assenza. Noi che vorremmo aver detto e aver fatto altro, noi che le reazioni immediate sono le più vere. Noi che ci siamo svegliati una mattina e abbiamo appreso che Franco Battiato non è più qui. Ma, forse, lui qui non c’è mai stato veramente.
Come per ogni grande artista, era uno e centomila, però mai nessuno. Era ovunque e altrove, sempre. Perché il poeta, si sa, è un fingitore. Tale e quale le pop star ed ecco che qualcosa già sembra quadrare. Perché, a pensarci bene, è per questo che di Battiato ognuno ha un’immagine diversa e preferita, non di rado legata a un aneddoto personale. L’intrepido avanguardista, il fine dicitore pop che coniuga classifica e sostanza, il mistico rapito, il profeta sardonico sono un uomo solo. Mai uno qualsiasi, però.
Fatto è che Battiato Francesco – in arte “Battiato”: virgolette vivamente raccomandate – è saldamente nel costume e nell’immaginario nazionali. Ma vivo, non consegnato a una mal riposta fissità museale. In qualunque forma lo vogliate, rappresenta un bagaglio culturale non limitato alla musica e che anzi la musica – in fondo e infine e più che mai adesso – la trascende. Nel quotidiano e nel classico, si moltiplica nelle pozze della cultura “bassa” e nei più ingessati ambienti di quella “alta”. Nel gioco di rifrazioni, l’ortolano che fischietta Bandiera bianca siede con pari dignità accanto ai Nanni Moretti e Lindo Ferretti che stonano e intonano E ti vengo a cercare, perché non è sempre una questione di stare da una parte o dall’altra. A volte una parte nemmeno esiste: c’è un tutto.
Altro che centro di gravità permanente: l’artista viveva in continuo movimento, spinto da quella curiosità poliedrica e polifunzionale che fungeva da bussola. Nazionalpopolare e fustigatore, mistico e misterico mai a giorni alterni, il catanese ha scandito le tappe di una vicenda artistica con pochi eguali in Italia per solidità e carisma. Da ammirare anche solo per questo, non ci fossero quei dischi così metabolizzati e incredibilmente non usurati. Dischi che si muovono da comunicatori sociali preziosi i cui effetti percepisci tuttora nel miglior “pop con cervello” del Belpaese. E non solo lì.
Per avere più carisma e sintomatico mistero.
L’alchimista intento a tramutare l’avanguardia in canzoni argute era impossibile da catalogare. Poneva mitologici nodi gordiani che non potevamo risolvere con uno sciatto – e, tutto sommato, banale – colpo di spada. No: qui bisognava studiare, spaccarsi la testa sopra il citazionismo mordace di «sensi del possesso pre-alessandrini» e «prostitute libiche».
Cosa avrà voluto dire? Avrà aperto un paio di Adelphi a caso e campionato le parole in un taglia-e-cuci alla William Burroughs? Vai a sapere… Più probabile che, composte queste frasi in un tramonto siculo, le abbia rilette tra sonore risate, sapendo che si stava per proporre in pubblico – e crescervi – con regole sue. Il che significa far rivoluzioni non “a canzoni”, ma navigando in un liquido amniotico di pop elevato che incide sul costume e sulla società. Così che, alla fine, l’italo techno-bubblegum Curuccuccù e l’invettiva cameristica Povera patria sono facce dello stesso splendido poliedro. Per questo ci trovi quel che vuoi trovare, come fosse una cartina di tornasole autorigenerante: il consumato predicatore nel deserto, il chiaroveggente di provata fiducia, lo sperimentatore freak sul divano che ti chiede cosa c’è da guardare, non fa alcuna differenza.
Ne eri – ne sei, ne sarai – sempre affascinato e confuso, pur con l’accortezza di tenere costantemente la guardia alzata e sapendo che il sonno della ragion veduta genera i comici involontari del Francobattiatismo e le macchiette alla Morgan. Sincronizzate gli orologi: tra vent’anni o più, sarà ancora un pezzo d’Italia refrattario alle catalogazioni, un asceta pop-art, una cerniera pronta a unire vocazioni e mutazioni. Del resto, nelle vicende di chi esce dal guscio a fine anni ’60 da emigrato a Milano tramite una canzone incisa a rovescio, il nastro di Möbius può essere una chiave interpretativa plausibile. Una delle tante, ecco.
Se insomma fiorisci una prima volta mettendo insieme tecnologia e provocazione, c’è poco da credere che ciò sia frutto di casualità. Sai cogliere l’attimo e piegarlo alla sua visione e anche da queste cose si vede un talento supremo. La stravaganza, insomma, possiede il più amletico dei metodi, tant’è che Battiato arriva al termine degli anni Settanta coperto di gloria intellettuale. Ha scardinato regole tramite album che sono stranianti détournements di lucidità sconosciuta, sistemati sul crinale tra sperimentalismo e pop. E ne ha persino smerciate un bel po’ di copie, mentre da (post) punk prima di tutti improvvisa happening rumoristi lungo la penisola. Shocking in my town, di già.
Per avere più carisma e sintomatico mistero.
Dopo di che, conclude una fase per aprirne altre. Prima si destreggia con gusto tra Karlheinz Stockhausen e John Cage ricordandosi della terra che lo ha generato. Infine, stanco dell’autoreferenzialità da compositore, cerca un pubblico più ampio. A sentire lui, per scherzo e scommessa. Come che sia, punta e soprattutto ottiene la fama abbracciando il ritmo e descrivendo l’espansione a oriente del villaggio globale tra muri che già crollano, stilistici e non. Il sarcastico «musica contemporanea che butta giù» ha l’aspetto della brillante presa di coscienza e di posizione e non è un voltafaccia da opportunista borghese, lui e i falsi miti di progresso.
Il coraggio della svolta pop è significativo, coerente. Temprato dall’età, appartiene a chi, a un certo punto, ha deciso di costruire una canzone autoriale che fa bella rima con popolare. Una canzone che non ostenta la propria unicità, tuttavia ne va fiera. Messo in moto l’ingranaggio, nessuno (ma chissà…) avrebbe potuto prevedere cosa sarebbe accaduto giusto quaranta anni fa. Il caso si somma alla tempestività, la vox passa dal padrone al populi, il cortocircuito è posto in essere da una falsa muzak dotta e beffarda che diviene botto commerciale.
La voce del padrone rappresenta il caso discografico nazionale per antonomasia: due milioni di copie vendute dal 1981, è il vinile/nastro/compact che balza fuori da tinelli e autoradio di tutti e che tutti (ci) accomuna. Lo ha ascoltato – lo ascolterà – chiunque e tuttora ti stupisci del come che distoglie dalla bellezza del cosa. Quella cioè di un disco che non ha una nota fuori posto, comunicativo ed eloquente come un punto esclamativo. Come l’autore, che in perenne viaggio esplorativo si guarda attorno e dentro, impasta pop e cultura con sapienza.
Entrato in ogni soggiorno, l’uomo di Catania ne esce con il dualismo che lo contraddistingue, recando la meravigliosa sfoglia emotiva della Stagione dell’amore mentre sparge spray muriatico con La musica è stanca.
Ciò che deve accadere accadrà perché è già accaduto.
Ogni suo passo è stato persuasivo, un tassello dettato da geometrie esistenziali che si colloca dentro un’evoluzione sorprendente. L’identità cosmica che ragiona di universi e astronavi in prospettive tricolori si concede autobiografia, scavo nella memoria e umorismo: di conseguenza, se le canzoni sono egocentriche, il peccato si perdona anche a chi le scrive.
La fine degli Ottanta racconta un autore in cerca di sé, un po’ visconte dimezzato e un po’ cavaliere senza testa, infine fanciullo dallo sguardo sornione che ritorna in Sicilia. La curva mistica è percorsa: dai testi scompare il situazionista enciclopedico per lasciare spazio all’anacoreta invocatore di spiriti universali. Sono i tempi in cui la terza vita nova s’illumina d’immenso e ci viene a cercare. Attraversando i meridiani e i paralleli della mente, il bardo cambia nuovamente strada assecondando una maturità che si salda al rock, all’indagine etnica e agli inizi scontrosi. Lo specchio appartiene al Battiatus umanista, perché la clessidra indica che non si devono sprecare i giorni. Un altro cerchio si chiude, siccome di nuovo stenti a credere che Come un cammello in una grondaia abbia venduto così tanto, data la sua profondità.
Il segreto sta probabilmente dentro L’ombra della luce. Nella vita di un Artista nulla cambia tranne sé medesimo ed ecco gli anni ’90 lanciare un misticismo avanguardista tagliato in diagonale da terzomondismi mai banali e suprema cura delle forme. Il mezzo è tutt’uno con il messaggio in brani che sono schegge dell’amicizia con il filosofo Manlio Sgalambro, ma più che altro ricercati haiku. Chiaramente, delle brevi ma dense poesie giapponesi la musica è un contraltare di sottintesi e false fragilità, propenso a rifiutare qualsiasi etichetta e disinteressato alle logiche del mercato. È arte che ha rinviato il suicidio sine die.
Sciarade
E i cicli del mondo si susseguono.
Ed è anche arte che, fino all’ultimo, schiva le forche caudine dell’istituzionalizzazione tra rock riconsegnato sia al post che al prog, riletture un po’ così dell’altrui repertorio e lo scandaglio gettato dentro a ogni lembo della realtà, passata e presente. Sulla veranda di casa sua, dove si contempla il panorama da Taormina a Siracusa, salgono aromi di arance e mare, di sole e di sale, di rose e pomodori. Pur sempre una questione di risolvere dualismi, la vita, e infatti Battiato ha sempre condotto il viaggio come un gioco sottile e ambiguo, nel quale ti muovi anche stando fermo e viceversa.
Ha camminato sulla corda tesa tra la mancanza di caselle adatte e l’infinita partita a nascondino che, a beneficio di ogni parte coinvolta, ogni Genio imbastisce con critica e pubblico. Il giorno della sua dipartita verso mondi lontanissimi, ci piace pensare che abbia elargito un sorriso impercettibile e poi sia sparito in senso letterale, come uno Stregatto di siciliana stirpe. In quel momento, è evidente come ci abbia sempre bloccato nel fuorigioco. Lui con il solito (ma ogni volta differente) scatto repentino. Noi davanti al portiere, senza nemmeno più il pallone tra i piedi, in braghe di tela come tutti.
Ma Franco nostro non se n’è andato come tutti. Se n’è andato lo stesso giorno di Ian Curtis, il diciotto maggio, in un coup de théâtre tanto inconsapevole quanto perfetto. Siamo umani, in fin dei conti. Come la stagione dell’amore, si viene e si va. A contare davvero, però, è quello che ci si lascia dietro.
Grazie per ogni singolo minuto, Maestro.
Franco Battiato Giovanni Lindo Ferretti Morgan Bluvertigo John Cage cinghiale bianco ultimi anni 76 anni fiorella mannoia torneremo ancora concerto per franco battiato carlo guaitoli musica leggera cantautore siciliano prime incisioni invito al viaggio versione definitiva