Un mezzo evento. Un po’ perché la storia dei Beastie Boys si è interrotta decisamente troppo presto, quando dio solo sa se ne non ne avremmo voluto ancora. Un po’ perché tra rockumentary e biopic il genere tira, specie se coccodrillescamente è l’occasione per pescare nel mondo dei più. Un po’, infine, perchè Apple TV+ è pur sempre Apple TV+, e i mezzi pubblicitari della grande mela (nel senso di quella-dei-telefoni-ma-non-solo) sono secondi a pochi.
Sta di fatto che l’uscita il 24 aprile scorso di Beastie Boys Story, documentario di Spike Jonze (Being John Malkovich, Her, Where the Wild Things Are) dedicato al trio della grande mela (nel senso di New York) è stato, per l’appunto, un mezzo evento: un po’ come se Horovits, Diamond e Yauch fossero tornati per davvero, con un disco, con un live, con una raccolta.
E invece. Ci accontentiamo lo stesso. E cogliamo il prestesto per ripercorrere l’incredibile parabola artistica di uno degli act più pazzi e innovativi di sempre. Dalle schegge hardcore punk degli esordi all’elettronica sperimentale successiva, passando per il crossover, l’hip hop, il jazz, la dance e le colonne sonore.
Non è facile fare i rapper a New York. Da bianchi poi, è praticamente impossibile. Figuriamoci essere pure ebrei. E magari decidere di provarci comunque 15 anni buoni prima di Eminem.
Sì, perché i primi a infrangere le barriere razziali “al contrario” tipiche della musica hip hop sono stati i Beastie Boys, che rappresentano, se vogliamo – e credeteci, vogliamo – dimenticarci di Vanilla Ice, i veri antesignani della scalata al successo di Mr. Marshall. Ma non finisce qui: parliamo anche dei primi – insieme ai Run DMC, ma ci torneremo – a inventare quella creatura meticcia e feconda che verrà chiamata un po’ genericamente “crossover”, mischiando il rap al punk e al rock, senza perdere l’occasione di tirare in ballo a sprazzi (perché no?) pure un po’ di metal.
Eppure nemmeno così riusciamo a esaurire l’importanza e il valore di questi tre (ex) disadattati dai nickname improbabili. Perché oltre a tutto questo, i Beastie Boys sono stati, nel prosieguo della loro carriera, un laboratorio creativo a tutto tondo, capace di spaziare veramente ovunque quando si parla di musica e di arte. Più che un canonico rap-trio, siamo dalle parti di un collettivo onnivoro e bulimico, un ensemble quasi zappiano per libertà di forme e contenuti: jazz, bossa nova, funk, elettronica, reggae e dub, video spassosi e surreali grazie a collaborazioni con registi come Spike Jonze e, su tutto, una quintalata abbondante e onnipresente di autoironia e dissacrante umorismo.
Cosa sono i Beastie Boys? La risposta a questa domanda è molto meno scontata di quanto si potrebbe pensare dopo un ascolto distratto del primo capolavoro Licensed to Ill. Ma proviamoci. Prendiamo il John Belushi di Animal House e imbeviamolo di avanguardia situazionista, buttiamolo in studio con i Public Enemy e mettiamolo a registrare un disco jazz avendo a disposizione una libreria illimitata di campioni. Fatto? Peccato, nemmeno ora ci siamo andati vicini.
La loro avventura comincia nel 1979, nelle vesti di un gruppo di adolescenti che pensa di saper suonare (e invece no) e si fa chiamare The Young Aborigines. Dentro ci sono un certo Michael Diamond che sbraita alla voce e una ragazza chiamata Kate Schellenbach a pestare la batteria. Fanno un punk sguaiato e primordiale come da ragione sociale, cercando di ispirarsi ai loro dischi preferiti: per lo più Joy Division, Siouxsie, Germs, Misfits, Black Flag e Bad Brains.
Nel 1981 si aggiunge alla combricola Adam Yauch, un amico di Diamond, come bassista, e il gruppo cambia nome in Beastie Boys. Questi disperati cominciano pian pianino a ingranare, imbrigliando la loro scellerata esuberanza in brevi schegge hardcore da 1 a 2 minuti di durata. Riescono anche a esibirsi in qualche concerto e a registrare un disco nel 1982, Pollywog Stew, tutto sbarattolamenti e svisate gracchianti, derivativo e ingenuo, ma quasi teneramente vitale.
Un anno dopo entra nel gruppo Adam Horowitz e finalmente inizia la rivoluzione: meno chitarre, fuori i campionatori. Il che è buffo, visto che – tecnicamente – Horowitz è proprio un chitarrista. Comunque, basta punk (ma non del tutto), benvenuto hip hop. Perché? Perché in questo paio d’anni sono usciti alcuni dischi che hanno dato uno schiaffo in faccia ai punkettoni: robe come Planet Rock di Afrika Bambaataa, The Message di Grandmaster Flash e King of Rock dei Run DMC. Album che mostrano come campionamento e breakdance possano sposare magnificamente le chitarre e il rock e perfino le teutoniche algidezze kraut dei Kraftwerk.
E allora ecco Cooky Puss, un EP di quattro pezzi in cui i ragazzi cominciano a smanettare con scratch e bassoni dub. Sfottono aziende di gelati (la title track), infilano un piedone nella scarpa made in Jamaica (influenza che tornerà più e più volte) e si issano in spalla un ghettoblaster come Dio comanda. E le chitarre, dicevamo? Ci sono ancora, ma l’approccio è completamente diverso.
Il dischetto circola, e a questo punto succede una cosa che cambia il destino dei quattro disperati: la British Airways utilizza – non autorizzata – il pezzo per uno spot. Con i soldi della causa legale vinta il gruppo si compra un appartamento a Chinatown (al 59 di Chrystie Street – casualmente di fianco a un bordello coreano), che diventa la base operativa ufficiale dei Beastie Boys: sala prove, dormitorio, studio e quant’altro.
A questo punto ecco l’incontro che svolta definitivamente la storia del gruppo: Rick Rubin è un altro “studente” (virgolette d’obbligo – “assiduo frequentatore di college party” sarebbe più calzante) dell’Università di New York, anche lui ebreo e fresco di passaggio dall’hardcore all’hip hop. Rubin ha appena fondato un’etichetta insieme a Russell Simmons, fratello di Run dei Run DMC. È una label che cambierà parecchio le cose nel mondo hip hop nel corso degli anni a seguire: la Def Jam Recordings.
Gentilmente (ma non troppo) viene fatto capire alla Schellenbach che è arrivato il momento di cambiare aria, perché la direzione intrapresa si sposa ormai decisamente poco con il punk, che lei continua a preferire. Così i Beastie Boys diventano un trio, pronto ad assimilare la ricetta per il successo propugnata da un tipo lungimirante e furbetto come Rubin.
Primo passo – basta guardare ai Bad Brains e ai Germs, il nuovo modello sono, appunto, i Run DMC. Così Horowitz, Diamond e Yauch diventano Ad-Rock, Mike D e MCA (pseudonimi – almeno nella loro testa – più credibili e street) e i Beastie Boys ufficialmente un gruppo rap.
Secondo passo – seguire alla lettera il titolo di quello che sarà uno dei loro brani-simbolo: Rhymin’ and Stealin’, ovvero rappando e campionando a destra e manca fottendosene di tutto e tutti. Come ad esempio capita con Rock Hard (1985), che ruba il riff di Back in Black degli AC/DC per confezionare un rap-rock festaiolo e sguaiato.
La strategia promozionale di Rubin prosegue poi senza sbagliare un colpo: tour in apertura ai Public Image Ltd., quindi Madonna, poi ancora ai compagni di etichetta Run DMC, a seguire la partecipazione alla colonna sonora di Krush Groove, il primo film di una major come la Warner dedicato al mondo hip hop. E tutto questo senza aver ancora pubblicato neppure uno straccio di album “vero”.
All’alba del 1986 i Beastie Boys sono ufficialmente la new sensation dell’hip hop newyorkese, senza ancora essersi smarcati del tutto dalla nomea di fenomeno costruito a tavolino: perché il rapporto tra il produttore e i tre ragazzacci ricorda troppo quello tra McLaren e i Sex Pistols di dieci anni prima. Siamo di nuovo davanti a un veicolo ideato per portare al successo una musica di strada che si disintegrerà su se stesso subito dopo? Giammai.
A ogni modo, tutto questo è solo l’antipasto al vero e proprio esordio, tanto atteso e agognato. Un album che farà la Storia dell’hip hop (e non solo) venendo poi amato e omaggiato in ogni modo negli anni a seguire (vedi la copertina di Kamikaze di Eminem): Licensed to Ill.
L’iconica recensione di Rolling Stone a riguardo titola: «Three Idiots Create a Masterpiece», e basta da sola a riassumere sia l’importanza del disco che la percezione dei tre da parte della critica specializzata. Riassumendo – un frullatore di tante cose già esistenti, ma mai sintetizzate prima con così grande efficacia: c’è il piglio demenziale dei Devo, i retaggi punk autoironici e scanzonati dei Ramones, un’alternanza vocale tra i tre quasi fumettistica (i loro call & response sembrano un monologo da Qui, Quo e Qua sotto oppiacei) e soprattutto una palette musicale veramente ampia. Dal rap-rock canonico (Rhymin’ and Stealin’) allo street punk goliardico (l’ironica Fight for Your Right (To Party)), dal metal parodico di No Sleep ‘Till Brooklyn (con assolo originale di Kerry King degli Slayer, altro gruppo in mano a Rubin) alla stortissima break jazzata di Brass Monkey. E poi un parco campionamenti che va da classici hard (Led Zeppelin, Black Sabbath, Clash) a sorprese black come Stevie Wonder o Barry White.
È una narrazione tardoadolescenziale caciarona e cartoonesca, infarcita di riferimenti alla pop culture e al consumismo occidentale, un continuo plagio gioioso e consapevole, un rimaneggiamento già postmoderno che è insieme traghettatore e precursore.
Tutto ciò li porta alla prima posizione in classifica della Billboard 200, con i video dei singoli in heavy rotation su MTV e numeri da capogiro. Nel tour a seguire risse, alberghi distrutti, arresti, spogliarelliste e falli di gomma giganti sul palco, a corroborare un’aura da rockstar sregolate e irriverenti studiata ma proficua. L’hip hop ha “finalmente” i suoi Sex Pistols, capaci di portare il genere in vetta alle classifiche e fare tanto casino (per nulla? Qualcuno dice di sì).
La domanda però a questo punto diventa: e ora? Tutto finito? Il giochino ha già esaurito la sua carica?
Neanche per sogno. Finita la sbornia da esordio, i Beastie Boys salutano la Def Jam, si trasferiscono a Los Angeles e stringono un sodalizio con i Dust Brothers, tra i produttori più in voga del momento. Il loro secondo album, Paul’s Boutique, è semplicemente qualcosa di mai sentito prima, e la dimostrazione che siamo di fronte a qualcosa che va ben oltre la boy band buona a fare giusto un po’ di casino.
Il disco è un caleidoscopio freak in cui perdersi, un collage sonoro superstratificato e densissimo. I campionamenti sono aumentati ancora rispetto all’esordio in un tripudio citazionista e le canzoni fluiscono l’una nell’altra raccordandosi tra loro grazie a skits, passaggi strumentali e infiltrazioni ambient. È lo stream of consciousness di un Joyce sfondato di canne, un cut & paste proto-tarantiniano che butta nel tritacarne praticamente tutto, componendo un ragù (in)edito e saporito. Curtis Mayfield, le Family di George Clinton e di Sly, James Brown, i Beatles (quanti paralleli tra questo disco e il loro Sgt. Pepper!), Hendrix, i Pink Floyd, Bob Marley e via di seguito all’infinito. Rockabilly, funk, dub, jazz, prog, hard rock, psych, perfino country e folk. C’è dentro di tutto ed è bello così.
Non tutti lo capiscono, però. E infatti l’album vende meno del precedente, ma una cosa è certa: i Beastie Boys sono qui per restare, e chi si aspettava che i tre si adagiassero reiterando il rap-rock casinaro che li aveva portati al successo, si sbagliava di grosso. Un pezzo come The Sounds of Science contiene da solo una quantità di idee e di voglia di osare e sperimentare che tanti altri ben più strombazzati innovatori dell’hip hop si sognano.
Addirittura, tra i principali fan di questo nuovo lavoro si palesano due insospettabili signori di nome Miles Davis (!) e Chuck D.
Tre anni dopo con Check Your Head (1992) lo schema cambia ancora: i tre riabbracciano gli strumenti dando vita a un disco crossover di hip hop “suonato”. Ma al solito non si accontentano, e lasciano infiltrare nei brani ancora tutta una serie di riferimenti altri: umori jazz (Groove Holmes) e funk (Funk Boss), ancora tanta psichedelia anni ’70, chitarre noise (Pass the Mic), echi dei Rage Against the Machine (Gratitude) e spezie orientaleggianti (Finger Lickin’ Good). Eppure questo terzo disco viene spesso dimenticato nel percorso della band. Demerito suo? Nient’affatto. Piuttosto merito del suo successore, un altro capolavoro che eguaglia i fasti creativi di Paul’s Boutique.
Ill Communication arriva nel 1994 e scompagina ancora una volta le carte in tavola. I Frankenstein sonori composti dai tre sono sempre più intriganti e ammalianti, raggiungendo una compenetrazione armoniosa tra campionamenti e parti suonate dal vivo mai vista prima. Si (s)viaggia tra hip hop strumentale, rimasugli hardcore-punk dalla prima parte di carriera (Tough Guy), score cinematici (Bobo on the Corner), scarnificate linee di basso funk (Root Down), morbidezze blaxploitation (Ricky’s Theme) e persino flash forward – e ricapiterà – dai Daft Punk del futuro (Do It).
Soprattutto l’album si rende forte di un singolo che è forse il pezzo meno interessante in scaletta (un’altra rivisitazione rapcore in salsa RATM), ma che diventa un anthem di enorme successo, anche – e soprattutto – grazie al video magistralmente diretto da Spike Jonze: Sabotage.
Negli anni seguenti arrivano un po’ di uscite per i completisti più affezionati: una raccolta di strumentali jazzate (The In Sound from Way Out!, 1996) e un EP di soprassedibili “pezzini” punk (Aglio e Oglio, 1995, memorabile più che altro per il titolo).
Il full-length successivo, invece, si rivela un altro lavoro strepitoso: corre l’anno 1998 e Hello Nasty prende tutto quello che i Beastie Boys hanno fatto fino a questo momento e lo spara nello spazio, proiettandolo in avanti di diversi anni.
Parte del merito è sicuramente di Mix Master Mike, mago del turntablism, che nel frattempo si è aggregato al trio. Comunque quello che ci ritroviamo tra le orecchie è un pastiche di rap influenzato da dance, trip hop, musica latina, ascendenze electro di stampo Warp e paccottiglia da sci-fi di serie B (come nel video di Intergalactic).
È roba tosta, che certifica come la band non ne voglia proprio sapere di restare con le mani in mano, creativamente parlando: data una cifra personale e riconoscibile, sono sempre capaci di trasportarla di volta in volta in avventure musicali sempre nuove e – per loro, ma spesso anche per tutti gli altri – inusitate. Giusto per fare un esempio al volo: un pezzo come The Negotiation Limerick File è un’incredibile anticipazione di tutto l’abstract hip hop degli anni Zero targato Anticon e compagnia, mica patatine. E poi recuperano tutte le reminescenze giamaicane che già abbiamo detto in tracce come Putting Shame in Your Game (con un beat notturno e inquieto che potrebbe benissimo essere di Tricky) o Dr. Lee, PhD (con ospite patron Lee “Scratch” Perry), tra trip hop, dub e similaria. Ancora, si fatica a raccapezzarsi in mezzo a schegge impazzite e indecifrabili come l’inclassificabile strumentale Piano Jam, l’orgia di scratch in omaggio al “nostro” Diabolik Body Movin’ e potremmo andare avanti per sempre.
Il grande successo di vendite e critica di Hello Nasty viene poi seguito dall’ennesima sorpresa firmata Beastie Boys: un crescente e insospettabile impegno sociopolitico, tra endorsement alla causa tibetana e critiche all’amministrazione Bush.
I cazzari che hanno messo la testa a posto? Sarebbe riduttivo, messa così. Probabilmente proprio inesatto. Fatto sta che l’approdo di questa sensibilità, ulteriormente acuita dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, giunge nel 2004 con To the 5 Borroughs, album dedicato alla città di New York.
Si tratta di un disco musicalmente non così stupefacente ed epifanico come il precedente, ma altrettanto maturo: si guarda soprattutto all’hip hop impegnato e old school dei Public Enemy (Ch-Check It out potrebbe essere stata prodotta dalla Bomb Squad), si omaggia il tandem Chic/Sugarhill Gang (Triple Trouble), si sculetta su perle dance ricche di gusto e di groove (All Lifestyles) e boombastic 8 bit in cui si prova (e soprattutto si riesce) a fare funk con i suoni di un videogioco arcade (Brrrr Stick Em). Insomma, alla fine anche qui ce n’è un po’ per tutti i gusti.
Il capitolo seguente è l’ennesimo salto nel buio. In The Mix-Up (2007) i Beastie Boys fanno (ma pensa un po’!) qualcosa che nessuno si aspettava: via Mix Master Mike e via il rap. Solo brani strumentali suonati, a base di jazz-funk cinematico e blandamente psichedelico, guardando alla blaxploitation di serie Z e ai polizieschi all’italiana anni ‘70. Nulla di infinitamente memorabile, ma un altro disco godibile e fresco, sicuramente divertente e con qualcosa da dire.
Nel successivo Hot Sauce Committee Pt. 2 (2011) invece la direzione intrapresa è un’ampia parabola retrospettiva che comprenda praticamente tutta la produzione della band lungo tutta la sua carriera.
Si va dalle origini hardcore punk (Lee Majors Come Again) ai panzer di rap-rock di Licensed to Ill (Make Some Noise), dai pastiche funk-dub di Paul’s Boutique (Nonstop Disco Powerpack, Funky Donkey) alle glitcherie in odor di Hello Nasty (Tadlock Glasses). E poi le costanti reiterate lungo tutto il loro percorso: le strizzate d’occhio simil-Daft Punk (Ok) e RATM (Say It, che sembra riprendere Sabotage), i ponti con l’hip hop East Coast (Too Many Rappers, che vede la partecipazione di Nas), i retaggi dub (Don’t Play No Game that I Can’t Win).
È insomma il disco perfetto per riassumere e riabbracciare idealmente l’intera produzione dei Beastie Boys, che putroppo si sciolgono un anno dopo a seguito della triste morte di Adam Yauch per un tumore.
Questo resta quindi l’ultimo (ahimè) tassello di una discografia compatta per quantità ma sterminata per ricchezza stilistica e qualitativa, capace di influenzare innumerevoli artisti e trend coniugando immediatezza e profondità estetica come pochissime altre. Dovevano essere solo i bianchi che hanno dato il via al rap-rock, sono entrati nella Rock & Roll Hall of Fame come uno tra i gruppi più importanti di sempre. Non male, ecco.