Da sempre (a torto) marchiati come un progetto parallelo dei Pavement, le cronache narrano che, rispetto ai ben più noti compari, hanno inevitabilmente fatto una fine peggiore. O forse no, dipende dai punti di vista. Mentre Malkmus e soci si avviavano a realizzare il proprio personale sogno americano rischiando di diventare con il tempo una caricatura di se stessi, Berman il sogno americano di tutta una generazione provava ad affogarlo nella sua stessa pozzanghera. Con il senno di poi, per un attimo, c’è riuscito. Quell’attimo dura 48 minuti e 21 secondi (im)peccabili e si chiama American Water. Nel 1998 sembrava già fuori luogo e fuori tempo. Eppure c’è gente che ancora ci nuota dentro, gente che non è più riuscita a tornare in superficie. Dicono sia ormai troppo tardi. Ma forse no. Dipende dai punti di vista.
In 1984, I was hospitalized for approaching perfection
è uno dei migliori primi versi di un disco di sempre.
Secondo solo, forse, a «Teenage angst has paid off well / Now I’m bored and old». Tra l’altro – a voler proprio essere pignoli – quelli sono due versi, il che squalificherebbe a prescindere il potenziale vincitore dalla competizione, con buona pace di tutte quelle migliaia di persone che c’erano a vedere i Nirvana al Bloom di Mezzago nell’89. Ma le regole son regole, deal with it – o, come piace dire oggigiorno ai seguaci della scuola romana, stàtece.
A parte i dettagli e la vanagloria di una classifica così ipotetica che metterebbe in crisi pure il Rob Fleming di High Fidelity, una circostanza in particolare – tra le molte che accomunano l’accoppiata di liriche – lascia un amaro, non trascurabile, retrogusto di inquietudine. Non tanto la quasi contemporaneità storica (un misero lustro di distanza tra i due statement è – soprattutto nella saggia retrospettiva di noi vecchi – ogni anno che passa un infinitesimo di ordine superiore) quanto il fatto che entrambi siano stati partoriti da due tizi che non molto tempo dopo si sono ammazzati (mettendosi un fucile in bocca nella serra di una villa a Denny Blaine o appendendosi alla trave di un appartamento a Park Slope non fa differenza). Due che – a voler proprio essere pignoli – prima di riuscirci c’avevano già provato almeno un’altra volta. Ad ammazzarsi, dico. Perché, nella vita, è bello potersi permettere le prove generali in ogni caso, ma soprattutto quando in ballo ci sono cose importanti. Tipo togliersela, per esempio. Improvvisare – a meno che non ci sia di mezzo il jazz – è da dilettanti, e bisogna assicurarsi di avere stile anche nei momenti peggiori. Come ben sanno quelli che ti ripuliscono e ti vestono ammodino il giorno del tuo funerale.
Lasciando perdere l’abusata narrativa che tirerebbe in ballo i poeti maledetti, la necessità della sofferenza come imprescindibile condizione necessaria (ma non sufficiente) alla creazione di una qualche arte che regga il passare del tempo, il presunto, sadico cinismo del music business che spesso prende più di quel che dà, la melensa rivalutazione di animi sensibili schiacciati da qualcosa più grande di loro (che sia stato il convivere con troppo successo o con troppo poco successo non fa differenza), il dubbio rimane.
Nel senso, qualcosa vorrà pur dire. Capire cosa, va probabilmente al di là delle capacità di noi comuni – appunto – mortali. Però ho come l’impressione che, involontariamente, confermi una teoria che mi gira in testa da sempre: mai fidarsi delle persone troppo intelligenti. Figuriamoci affezionarsi, poi.
David Berman è il J. D. Salinger dell’indie rock. Ha una scrittura disarmante eppure è il suo fan meno entusiasta. Brillante, divertente, arguto, ma senza mai andare oltre una minuscola venerazione di culto. Ha uno sguardo sul reale che si manifesta nella battuta sagace, piuttosto che nella cronaca neorealista. Questo non significa che ai suoi occhi tutto sia solo ed esclusivamente un gigantesco scherzo, potremmo però riassumerla così: pare quasi incapace di affrontare le cose in maniera diretta, frontale, senza prima averle rigirate un attimo dal lato che la sua immaginazione trova più interessante.
Per lui è sempre stata innanzitutto una questione di poesia, solo successivamente – all’inizio, probabilmente, quasi per sbaglio – di musica. Un approccio in qualche modo dylaniano, potremmo azzardare, se il rischio non fosse quello di incastrarsi di nuovo in quel vicolo cieco che porterebbe diretto alla Konserthuset di Stoccolma ma invece risulta del tutto impraticabile, visto il sovraffollamento di rissosi esperti in materia, intenti a fare a cazzotti per decidere se le canzoni possano essere considerate davvero letteratura o solo banale entertainment.
Fatto sta che lo ascolti rapito senza accorgerti che stai lisciando il pelo a un reciproco – assolutamente non garantito – senso di familiarità, con una mutua valorizzazione dei concetti di vergogna, ineluttabilità e sconfitta. Suona bene, tragicamente reale. Più del dovuto.
Qualche sedicente psicologo che di mestiere fa l’ospite fisso di certi talk show pomeridiani probabilmente direbbe che non dovremmo proiettare. Esagera perché deve spararla grossa per motivi di audience, però sicuramente c’è il rischio che si stia sovrastimando la lucidità di chi, a un certo punto della sua vita, è arrivato così alla frutta da nutrirsi di sola vodka, sostenendo che – ogni storia è buona quando è il tuo turno nel cerchio degli alcolisti anonimi – gli avrebbe «ripulito gli organi interni». Sono conclusioni pericolose, siamo d’accordo, equazioni da cui stare alla larga: depressione come via verso la fama eterna, debolezza intrinseca come unica e ultima fonte di verità. Da lì a dare immeritato peso ai pensieri di uno che si è stretto un cappio al collo è un attimo, e se può avere il suo senso, è un senso macabro, da cui è bene mantenersi a debita distanza.
È che a forza di vedere film americani, serie TV americane, ascoltare musica americana fatta di storie di eroi americani, a un certo punto ci si stanca dei vincitori. Ancor di più, dei vincenti. Gente che ce la fa con le proprie forze, che sta in piedi sulle proprie gambe, che prende pugni ma non barcolla. O se barcolla, non molla. Anzi, restituisce quanto incassato con gli interessi e, anche se in precario equilibrio, conquista posizioni con le unghie e con i denti, reagisce imperterrito, scala pareti che non avresti mai detto.
Ecco, nel mondo dei Silver Jews puoi scalare quanto vuoi, ma quando arrivi in cima ti rendi conto che non c’è nulla, se non l’altro lato della parete da cui scendere (precipitare, dicono gli inguaribili ottimisti). Al contrario, trattenere il fiato più che puoi lasciandoti scivolare in profondità è l’unico modo per trovare la strada per risalire (che sia pertugio, corrente o rete in cui rimanere impigliati per farsi trascinare a riva non fa differenza).
Con American Water, Berman mette questo paradosso sotto gli occhi di tutti. Allergico alle stronzate istituzionali vendute come “parlar chiaro”, fanatico dei doppi sensi mai fini a se stessi, perdutamente attratto dalla saggezza fortuita che all’improvviso salta fuori da certi cliché al contrario, innamorato di tutti quegli amanti del brivido minori ingiustamente marchiati come loser, liquida – mai parola fu più adatta – il sogno americano tenendogli la testa nel cesso finché non inizia a sbattere i piedi, a corto di ossigeno. In extremis poi, lo tira su per il rotto della cuffia e – mentre quello è ancora gocciolante, piegato a tossire senza fiato – gli dà una pacca sulla spalla e gli offre da bere. Perché non è il tipo che serba rancore, lui, se non nei confronti di se stesso. Analizzando la cosa mentre sfogliamo l’album dei ricordi comodamente seduti sul divano di un innocuo domani, eccolo lì, il suo unico errore.
Un lavoro sporco, in definitiva, ma qualcuno doveva pur (ri)farlo. Berman prova a portare a termine il compito con garbo, in maniera molto poco rock. D’altra parte, il 1998 era un momentaccio per mettersi in testa un progetto del genere, anche se questa è una cosa che abbiamo scoperto solo più tardi, quando ci siamo guardati indietro. Il problema è che non c’è niente di più rock (in senso classico) del sogno americano in sé e quindi, alla fine della fiera, è proprio al rock che si è trattato di provare a fare le scarpe. Dall’interno, per di più. Insomma, i presupposti per un’indimenticabile débâcle di cui andare perdutamente orgogliosi c’erano tutti: impossibile non cadere in tentazione.
Per quanto la musica rock tradizionalmente intesa – dal momento in cui è stata popolarizzata negli anni ‘50 – abbia accumulato un’infinità di nicchie e sottogeneri, mai nessuna band ha incarnato, e successivamente sintetizzato, il concetto di anti-rock come i Silver Jews.
I Silver Jews sono fin dall’inizio – e saranno fino alla fine, visto che si ridurranno quasi a un progetto solista di Berman stesso – una anti-band a tutti gli effetti. Sei dischi in quindici anni e nemmeno un tour (se si esclude quello del 2006, che però bisognerebbe trattare onestamente per quello che è stato, ovvero la scusa per una gita turistica di fine carriera in – guarda caso – Israele). Al punto che c’è ancora chi pensa vadano archiviati come un semplice side-project dei Pavement, quando invece – pur non negando l’apporto fondamentale di Stephen Malkmus e Bob Nastanovich ai primi album – se proprio vogliamo trovare una correlazione vagamente simile alla buona vecchia idea di causa-effetto, dovremmo forse risalire la corrente al contrario.
Per dirne una soltanto, è stato proprio Berman a uscirsene con la definizione “slanted and enchanted” che Malkmus userà come titolo per il debutto dei suoi e che diventerà uno dei manifesti definitivi di quella grandeur slacker pronta a fare da solido scudo a tutto l’indie rock dei primi anni Novanta. Lungi dal povero David rivendicare qualche merito al riguardo, ci mancherebbe: lui sosterrà di averla a sua volta presa in prestito da Emily Dickinson («Tell the truth, but tell it slant»). Ma che ci volete fare, questo è il nostro uomo: fin da subito aggrappato a un mondo ancor più arrugginito e nebbioso di quella mezza allegria spigolosa della band di Stockton. Ancor più rustico, lontano dalle stranezze premeditate e consapevoli del post-punk, anche se legato a doppio filo a certe stravaganze inconsce, ma paradossalmente ancora più singolari, della frontiera americana: predicatori religiosi che blaterano alla radio, bumper stickers con cui ricoprire le chiappe delle auto e tutta l’estetica (e la poetica) delle insegne traballanti dei distributori di benzina e dei motel a ore lungo le statali.
Coincidenza (per chi ancora crede nelle coincidenze) vuole che il primo album dei Jews esca in concomitanza con il trionfale ingresso dei Pavement su MTV, e la cosa non ha certo aiutato tutta la narrativa successiva, anche se da lì in poi il divergente approccio al concetto di successo tra due formazioni – e la conseguente differenza nei risultati in materia – è stato più che evidente. Nonostante la rappresentazione “gente stramba e vagamente timida che suona roba storta con le chitarre” abbia portato (e in seguito continuato a portare) notevoli dividendi alla causa della white man fragility, la verità è che al tempo era sempre assurdamente in auge l’aspetto in qualche modo macho del rock. Il nu metal la faceva da padrone in classifica (è durata poco, ma qualcuno ci vive ancora di rendita) e tutto l’ambaradan di crossover con il rap stava trasferendo anche nel rock (come se ce ne fosse stato bisogno) catenacci al collo, denti d’oro, anonime “bitches” e quintalate di “fuck”. I Pavement – non si sa bene come, è un merito anche quello – hanno saputo sguazzarci senza particolari problemi. I Silver Jews hanno provato a disarmare la facciata di nuova misoginia che il genere si stava pitturando addosso con qualcosa di vulnerabile, sincero e genuinamente autoironico.
È brutta, detta così, probabilmente ingiusta e sciaguratamente faziosa, ma forse non va tanto lontano da quello che è successo davvero: Malkmus sotto certi aspetti ha “solo” tentato di imitare il rock a lui contemporaneo, Berman ha provato a distruggerlo. Il primo lo ha fatto bene, ha portato una ventata di freschezza e l’autoreferenzialità che il suo ego gli ha imposto ha in fin dei conti contribuito a salvargli la pelle. Gli saremo per sempre grati, a prescindere. Il secondo lo ha fatto troppo bene, e alle macerie c’è rimasto sotto. Il rock si è poi ripreso, come sempre è successo e succederà nei secoli dei secoli. Lui no.
Eppure le cose sarebbero dovute andare diversamente. American Water esce il 20 ottobre del 1998 e, almeno nella capoccia di Berman, è il figlio legittimo di un impegno preciso e delle migliori intenzioni:
Volevo fare un disco che non fosse un’esperienza estrema, dolorosa, terribile. Volevo fare un disco come fanno tutti gli altri: la gente fa i dischi e si diverte a farlo. Anche io volevo divertirmi a fare un disco, una volta tanto.
L’esperienza da dimenticare a cui si riferisce è The Natural Bridge, secondo album dei Silver Jews. In particolare, l’allusione sufficientemente esplicita è al momento in cui, fresco del suo master in poesia all’Università del Massachusetts, durante le registrazioni gli era presa così male in termini di ansia da prestazione che era finito sul serio all’ospedale a causa di gravi sintomi da privazione del sonno che Ryan Murphy – suo batterista all’epoca – riassumerà con una similitudine a dir poco efficace:
Mentre cantava, sembrava fosse inseguito dai fantasmi.
Anche in retrospettiva, Berman non perde il pessimismo, per così dire. Ma se non altro trova il modo di raccontarsela in maniera quasi convincente:
The Natural Bridge sono io che cerco delle regole a caso per non accettare che il caso sia la regola, e non ce la faccio. È un gran peccato che sia proprio il modo in cui va la vita. American Water sono io che quelle regole provo a ripeterle di nuovo – a voce alta, a qualcun altro – dopo averle finalmente accettate.
Thomas Beller la chiamerà «l’amarezza della consapevolezza». La definizione calza a pennello, e ci dice che tra uno stato d’animo del genere e il divertirsi a fare un disco c’è di mezzo una distesa d’acqua che si perde oltre l’orizzonte, appunto.
E tanto amara quanto eloquente è la consapevolezza con cui, per esempio, American Water cattura lo zeitgeist e la luce fioca del tramonto di un’era. Sono gli anni ‘90 e finiscono ufficialmente – con un paio di anni di ritardo – l’11 settembre del 2001.
Qualunque sia a quel punto l’idea standardizzata di indie rock, è ormai completamente superficiale. Qualcosa da vendere, una marchetta. Ha compiuto definitivamente la sua lunga curva oltre l’idea originale (quanto originale è ancora tutto da dibattere) degli anni ‘80 – che ci era stata a sua volta venduta come un flusso creativo senza macchia e senza paura proveniente dalla periferia dell’industria musicale – e qualcuno ha iniziato a vederci una merce buona da mettere sul banco al mercato: carne da macello che basta rivestire bene e infilare nelle tasche del miglior offerente. Sarà esattamente quello che avverrà dopo i fattacci delle Torri Gemelle: i giovanotti ammiccanti ma ombrosi, bellocci e con il chiodo torneranno prepotentemente di moda e gente come Strokes, White Stripes e Yeah Yeah Yeahs finiranno per rivelarsi la scommessa più comoda e sicura di un’America irrimediabilmente ferita e paranoica.
In questo senso, è interessante vedere invece come i Silver Jews si dichiarino in partenza ancora profondamente devoti a certi vecchi dischi country e rock’n’roll old school. L’idea idillica di rock star che ha Berman (ammesso ne abbia una) non è fasciata di pelle nera, borchie e spillette – porta piuttosto stivali da lavoro, jeans consumati e sporchi di fango, mentre sorseggia una birraccia da poco, a fine turno, nel retro di un bar scrauso in qualche buco di culo del mondo. Nella sua testa, i danni fatti dal rock anni ’70 e ‘80 sono a questo punto abbastanza lontani, quasi oltre la linea dell’orizzonte nello specchietto retrovisore, e la cultura underground ha ormai acquisito il diritto – diciamo per usucapione – di prenderne tutta l’ispirazione che vuole. Non serve più che qualcuno si metta manifestamente e simbolicamente in opposizione ai Beatles e agli Stones: l’hanno già fatto i R.E.M. e i Butthole Surfers prima di te, a voler bene vedere l’hanno fatto anche per te, ed è stato più che sufficiente. In altri termini, se la narrativa dominante negli Eighties si era rivelata quella di cercare per la musica genericamente indie una fessura di intrusione verso uno spazio commerciale più ampio, adesso è il momento di riavvolgere il nastro e riportarla nell’ombra di una qualunque nicchia, in una specie di democrazia dell’alternanza applicata al fascino dell’insuccesso.
È proprio qui, in questa sorta di ribellione non violenta nei confronti non tanto di ciò che sta accadendo, ma piuttosto di quello che sta per accadere, che American Water trova il suo senso più compiuto. «In 1984, I was hospitalized for approaching perfection» è un presagio evidente della grandezza sommessa del disco. Suona come la frase sentita al bancone di un pub, da un reduce di guerra. O magari soltanto da uno spaccone che la sta raccontando più grossa di quel che è ai compari che non l’hanno accompagnato al bowling la sera precedente. Non ha niente a che fare con il comune concetto di perfezione, ovviamente. Niente, nel mondo di Berman, ha a che fare con la perfezione. Cercare di raggiungerla è quasi una colpa, un sintomo preoccupante che richiede trattamento medico. Eppure questo non ha impedito ai Silver Jews di provarci. E di riuscirci, a modo loro.
Sì, perché American Water è la promessa implicita dell’indie rock – ovvero che il tuo sogno vale la pena di essere sognato anche se più dimesso e meno convinto del sogno pubblicizzato come collettivo – compressa in meno di cinquanta minuti. L’insulto ricevuto come medaglia al valore, un dito medio indirizzato a caso a tutte quelle produzioni super patinate che il rock generico ha fatto da tempo sue e che nel ‘98 già poggiano su fondamenta sempre più traballanti, ma fingono di non accorgersene e vanno avanti a spaccare ogni salvadanaio che trovano, finché bancarotta non le separi.
È il sogno di uno che chiaramente è bel lontano dall’essere anche solo vagamente felice, ma così bravo con le parole da rendere – esclusivamente con quelle – l’illustrazione scoraggiante di un’America piegata sulle contraddizioni dei propri sobborghi, ai tuoi occhi in qualche modo affascinante. Buffa, ma mai ridicola. Empatica, ma mai paternalistica. Perennemente afflitta da quella distorsione caleidoscopica che ti perseguita quando ti ostini a guardare il soggetto della tua analisi troppo da vicino. La messa a fuoco che si perde nel dettaglio troppo insistito. Un ascolto cerebrale, nonostante il suo retrogusto pop. Ma non cerebrale nel senso masturbativo che in genere associamo alla musica prog. Cerebrale in un’accezione più carveriana del termine. Quello che sarebbe potuto essere What We Talk About When We Talk About Love se fosse stato scritto dopo la toccata e fuga del grunge. E se Carver avesse avuto una visione altrettanto ironica del destino, s’intende.
Il sogno di uno che sa prendere l’assurdo e srotolartelo davanti agli occhi con una schiettezza inconsueta, sempre in bilico tra amara sincerità e satira arguta, costantemente aggrappato a entrambe, per non cadere. Uno che cade immancabilmente, perché né sincerità amara né tantomeno arguta satira sono paletti che possono garantire la stabilità necessaria a sorreggerti, soprattutto se il terreno in cui sono conficcati è friabile come la frolla del blackberry cobbler servito allo Shorty’s Diner di Williamsburg, Virginia. Uno che si dichiara orgoglioso del fatto che tutti i suoi cantanti preferiti non sappiano cantare, che si prende gioco dei suoi stessi versi confessando (sapendo di mentire) che sono stati – più o meno per intero – scopiazzati da scritte trovate sulle mattonelle sudicie dei bagni degli uomini. Uno che non riesce a negare la bellezza del suono che fanno le cose quando si rompono, ma che allo stesso tempo è ben consapevole che l’unica cosa che sognano davvero le cose rotte è incontrare qualcuno che le ripari. Uno che non dovrebbe proiettare, direbbe il sedicente psicologo che di mestiere fa l’ospite fisso di certi talk show pomeridiani, ma sempre e comunque uno su cui puoi contare se di notte ti senti solo: passa sotto casa sua, suona il clacson e vedrai che fare mattina in due sarà meno complicato. Uno che scrive lettere ai fiori selvatici in autunno, perché e la stagione più sincera e a ottobre non c’è più travestimento che tenga o inganno che non si riveli per quel che è. Uno che non disdegna il ruolo di soprammobile in una stanza. Una stanza priva di mobili, per la precisione.
Con queste premesse, inevitabile che il disco proceda in maniera impertinente, meravigliosamente scomposta. Western (anti)metropolitani che sconfinano quasi in un’arcana hillbilly disco, allo stesso tempo onirica e spaventosa, come una sfera di cristallo dove vedi il tuo futuro andare in vacca, mentre una strobo fa malinconicamente le veci del lampadario, riflettendo luce glitterata su scarpe rabberciate con il nastro adesivo e pantaloni lisi che stanno su giusto grazie a ridicole bretelle fuori tempo. Un mondo di perdenti ed emarginati. Ma perdenti stranamente belli, a cui non puoi fare a meno di volere bene. Sniffatori di colla con i baffi posticci e pescatori della domenica, falsi ricchi alla piscina del country club e lobbisti dell’industria dei fast-food, tenerissimi cuccioli da compagnia e bimbetti di periferia dai nomi biblici, esecuzioni di mezzanotte aperte al pubblico e gente che fa l’autostop per andare a vederle. Personaggi così, fantasmi del bene e del male – Berman sembra passarli in rassegna uno dopo l’altro, come diapositive messe in fila su un proiettore. Li sovrappone contro il fascio di luce, li accoppia in trasparenza, ne scruta le sagome.
Il contributo del resto della band (Tim Barnes, l’ex Royal Trux Mike Fellows, Chris Stroffolino e lo stesso Malkmus, che respira a pieni polmoni in questa sua ora d’aria fuori da quei Pavement che già iniziano a puzzare di prigione) è all’altezza della sceneggiatura – asciutto, démodé, ma appassionato come non mai. Batteria strascicata, basso sornione, legature e swing tanto scolastici quanto gustosi. E poi quegli assoli di chitarra che sembrano farfugliare impastati, inciampando come uno zoppo durante una maratona, in una pantomima che dei guitar hero si prende gioco, invece che dall’alto in basso, dal basso verso l’alto. Come un ubriaco fradicio che a fatica stare in piedi e, una volta rovinato goffamente con il culo per terra, da laggiù ti guarda appannato, accenna con i pugni avvizziti una posizione di mezza guardia e ancora ti provoca, insolente: fatti sotto, rock’n’roll, è tutto qua quello di cui sei capace?
Oggi, ad anni luce di distanza, possiamo dircelo senza paura di passare per snob al contrario: sarebbe obiettivamente impossibile immaginare American Water registrato con raffinatezza convenzionale da un gruppo di diplomati al conservatorio che l’ha effettivamente provato e riprovato in sala prove, cantato da un cantante che – appunto – sa cantare. Suonerebbe troppo corretto, troppo ripulito: l’intuizione programmata a tavolino da un performer navigato, invece che la rivelazione spontanea dell’uomo comune preda delle incongruenze della sua quotidianità.
Allo stesso modo sarebbe stupido pretendere che il suo messaggio fosse centrato, mirato e dai contorni completamente definiti, perché il suo obiettivo (volontario o meno non fa differenza) è esattamente l’opposto. American Water è un album così concettualmente vago che non guarda all’età o alla provenienza geografica di chi lo ascolta. Chiunque tu sia, da ovunque tu venga, qualunque sia la strada che hai fatto per arrivare a pucciare i piedi nel suo bagnasciuga, troverai un angolino di riflusso dove sentirti a tuo (dis)agio. L’umanità disarmante e le metafore sbiadite che la sua risacca porta a riva generano qualcosa di estremamente singolare: un linguaggio (anche sonoro) fatto di crude, esplicite battute di spirito che solo superficialmente possono apparire sconnesse. In realtà giocano il ruolo di appunti sul bordo consunto di un libro di storia americana, quell’America di fine millennio, dove passione e ragione stanno lasciando il posto a ossessioni, manie di persecuzione e psicosi politica.
Nondimeno, allo stesso tempo, è un disco tremendamente personale, una specie di segreto da condividere con il suo stesso autore, ma non nella forma di una breve conversazione colpevolmente complice, quanto piuttosto in quella di un dialogo esteso, che si snoda oltre una manciata di whisky alla goccia e sottobicchieri inzuppati, quel che basta per arrivare almeno mezzi sobri a contemplare l’alba della propria sconfitta e realizzare che, dopotutto, poteva andare peggio. Poteva piovere, e invece guarda un po’ che bella giornata, là fuori.
Come è finita, poi, lo sappiamo.
Nel 2003 Berman prova una prima volta a farsi fuori, ma esagera con il melodramma: sceglie come location l’esatta stanza dell’hotel di Nashville in cui Al Gore si era chiuso ad aspettare i risultati delle elezioni del 2000 (poi perse contro George W. Bush) perché – tu chiamalo, se hai il gusto della beffa, ultimo desiderio – vuole morire «dove era morta la democrazia». Proprio come la democrazia in quell’occasione però, fa male i conti e la cosa non finisce bene. O male, dipende dai punti di vista. Diciamo che non finisce.
Di lì a poco il capitolo Silver Jews si chiude con la schiva teatralità che li ha sempre contraddistinti: un concerto d’addio a 333 piedi sottoterra, nelle caverne di Cumberland a McMinnville, Tennessee. È il 31 gennaio del 2009, fuori è bel tempo, anche se fa un freddo porco. Laggiù la situazione è più mite: ci sono circa 13 gradi e un tasso di umidità sopportabile, qualcuno tra il pubblico ha il casco antinfortunistico da minatore, perché – nella vita come nei dischi – la sicurezza non è mai troppa. Smith & Jones Forever sarà l’ultimo pezzo dell’ultima setlist.
Poi dieci anni passati a nascondersi, se non per un unico strappo alla regola: il ritorno a sorpresa, nel 2019, con quello che ancora si discute se possa essere il suo miglior lavoro di sempre, in cui si mostra di nuovo splendidamente incapace di mettere in vetrina tutto il suo talento e la sua depressa autoindulgenza. Eppure – nonostante le fin troppo facili riletture che possiamo farne oggi, dal futuro ancora troppo prossimo di una ferita ancora troppo aperta – niente in Purple Mountains suona come il testamento di uno che si è arreso. Al limite, il resoconto romanzato di uno che ha fatto un lungo ballo con l’oblio ed è uscito dall’altro lato della sala pronto a chiedere un nuovo giro di valzer alla vita. Uno che ha guadato il pantano della disperazione, ma è risalito a riva con i pantaloni incrostati di melma, tutto lo humour di un tempo intatto e l’intenzione di rispondere agli accidenti con comprensiva partecipazione invece che con repulsione disarmata. E invece. A nemmeno un mese dall’uscita dell’album, prende meglio le misure alla questione di cui sopra e fa finalmente centro. Si fa per dire, ovvio. E, al solito, dipende dai punti di vista.
Tutto è bene quel che finisce bene, chioserebbe a tal proposito il più cinico dei saggi. O che finisce male, rilancerebbe il più saggio dei cinici. Indovinate da cosa dipende? Esatto. Il buon senso consiglia di non schierarsi troppo apertamente tra le spine di una tale diatriba e limitarsi all’atarassia di un generico tutto è bene quel che finisce.
American Water finisce con The Wild Kindness. E tutto è bene quel che finisce con The Wild Kindness. O forse che non finisce con The Wild Kindness. Sì, perché rimane il dubbio che – nella vita come nei dischi – la puntualità (anche, estremizzando, la puntualità della morte stessa, di una persona – o dell’immortalità stessa, di un disco) sia sopravvalutata. Il sospetto che – nella vita come nei dischi – l’unica cosa da sperare sul serio, fino a farsi uscire il sangue dal naso, sia di riuscire a barattare il concetto di tempo con quello, ben più confortante e umanamente gestibile, di ritardo. Il rammarico che – tecnicamente, a voler essere di nuovo pignoli e chiudere malamente il cerchio – «and let forever be delayed» non sia, anche se solo per qualche riga di troppo, l’ultimo verso dell’album.
Sarebbe infatti stato – a questo giro sul serio, senza se e senza ma – il miglior ultimo verso di un disco di sempre. La puntina che si inceppa a un paio di curve dal traguardo, un loop tanto inaspettato quanto salvifico che rimanda i saluti a data da destinarsi, un rallentamento asintotico di una decrescita – se non felice, almeno serena – che diminuisce la velocità della giostra su cui stiamo volenti o nolenti in equilibrio a poco a poco, ma di quel poco che basta per non dare appigli giustificati alla nostra voglia di scendere.
Su, provate a sussurrarlo sottovoce come una preghiera laica indirizzata a un dio a caso (che abbia un’aureola in testa o una camicia di flanella addosso non fa differenza) e prendetevi il lusso di essere obiettivi, per una volta, anche voi che avete fatto la fila fuori dal Bloom di Mezzago nell’89.
And let forever be delayed
Non ci sarebbe stato nessun ultimo verso di nessun disco dei Nirvana che avrebbe retto il confronto. Stàtece.
Silver Jews David Berman Pavement Stephen Malkmus Purple Mountains