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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Gli ultimi anni di Michael Hutchence

Un disco solista a metà e il sodalizio con Andy Gill, alla ricerca dei sensi perduti.

Il meno celebrato dei frontman estinti ha avuto la più avventurosa delle vite. Finché, come in uno scenario molto attuale, è stato privato di qualcosa che gli permetteva di coglierne l’intensità. Questa è la storia di un rocker atipico e del suo guardiano.

Perdere i sensi

Anche in periodi di mero terrore come quello che stiamo vivendo, intervengono per fortuna futili pensieri a distrarci dal tema centrale. È da giorni, per esempio, che penso a Michael Hutchence. E il filo conduttore che mi porta a lui è bizzarro.

È appurato che, tra i sintomi meno frequenti del contagio da COVID-19, ci sia la perdita di olfatto (anosmia) e di gusto (disgeusia). Una lettura casuale di qualche tempo fa, m’informava del fatto che il leader degli INXS, negli ultimi anni della sua breve vita, dovesse fare i conti con questi due deficit e le relative, pesanti conseguenze sulla sua psiche. Non sentiva né odori né sapori. A provocare questo danno era stata una questione meccanica: in seguito a una colluttazione con un tassista londinese, Hutchence era caduto, sbattendo la base del cranio a terra. A seguito dell’incidente, l’interruttore che regolava questi due sensi – così accesi nella sua esistenza bohémienne – si spense per sempre. Tant’è vero che da lì in poi, per afferrare il gusto o il profumo di qualcosa, dovette farselo raccontare da altri.

Questa l’ha coverizzata anche Springsteen.

Carisma

Ho sempre pensato che Michael Hutchence non sia celebrato al pari di altre rockstar defunte, se non come eroe nazionale nella sua nativa Australia. Non che debba essere elevato al pari di un Jim Morrison, di un Kurt Cobain o di un Jeff Buckley, ma il suo ricordo pare irrimediabilmente, ingiustificatamente fioco. Forse perché il suo enorme carisma ha dovuto vedersela, a suo tempo, con almeno una trentina di altri – enormi – come quello di Bono (Vox), che gli era pure fraterno amico. O quello di Simon Le Bon, con cui ha condiviso estati folli. Oppure ancora il conterraneo Nick Cave, una fortezza difficile da espugnare.

Eppure a Hutchence non mancava proprio niente. Anzi, in fondo forse aveva qualcosa in più degli altri. Timido e riservato nella vita privata, sul palco era una furia: era in grado di riempirlo senza monopolizzarlo, con movenze flessuose, vagamente jaggeriane, e con quella sua inconfondibile timbrica baritonale. E poi aveva quella bellezza, imperfetta e impetuosa, per cui strapparsi gli indumenti di dosso senza far distinzione tra stagione calda o fredda.

Last (but not least), il successo planetario della sua band, con cui ha sbancato classifiche, riempito stadi e fabbricato hit. Tante hit. Una delle ultime, Never Tear Us Apart, è stata recentemente coverizzata dai National per una compilation benefica dedicata all’Australia. Un tributo che potrebbe aprire uno spiraglio verso la rivalutazione degli INXS stessi. Forse.

Questa l’ha campionata il mondo della dance – vedi: Par-T-One feat INXS.

Quei maledetti cliché

Prima di congedarsi dalla vita in modo incomprensibile in una stanza del Ritz-Carlton di Sidney a soli trentasette anni – il 27 novembre del 1997 – Michael Hutchence aveva dei progetti. Tra le altre cose, stava lavorando al suo primo vero album solista. Già in passato aveva tentato di crearsi un alter ego fuori dalla band con il side-project Max Q, che, però, non era andato benissimo.

La sua morte fu archiviata come suicidio, ma la sua compagna di allora, Paula Yates, non credette mai a quella versione. Per lei, e per altri, si trattò di un gioco autoerotico finito male. Proprio Michael, che detestava gli intramontabili cliché della rockstar, improvvisamente ne aveva addosso due: schiattare da solo in una stanza d’albergo, e l’onanismo letale.

Non c’è abbastanza tempo – titolo profetico.

Non era un bel periodo per Michael, quello che precedeva il fattaccio. La spirale della dipendenza e la disastrosa relazione con Paula avevano abbassato l’asticella dell’allegria. Tutta colpa del tribolatissimo divorzio tra lei e il suo ex marito (Bob Geldof) che, va bene la pace nel mondo, ma le corna proprio no. In pratica, aveva deciso di farle scontare il tradimento e l’abbandono fino all’ultima goccia di sangue, giocandosi tutto sulla custodia delle loro tre figlie. Un meccanismo diabolico che aveva travolto inevitabilmente anche Hutchence e lo aveva fatto piombare in quel circo mediatico che, specie in quel periodo, era in grado di trasformare una rockstar in carne da macello, con una metodica fabbricazione di notizie false, prima ancora che si chiamassero “fake news”.

Come spesso accade – la Storia si ripete, lo sappiamo – due elementi erano stati decisivi nella creazione dello scandalo: dosi di eroina trovate in casa, e una figlia minore, Heavenly Hiraani Tiger Lily, che Paula aveva avuto nel 1996. Una miscela esplosiva. Come per Kurt Cobain e Courtney Love, il caso mise a repentaglio una carriera, oltre alla custodia dei figli. Con la differenza che, per Kurt e Courtney, ci fu l’assoluzione – per Michael e Paula, no.

Ed ecco il terzo cliché con cui Michael non avrebbe mai voluto scontrarsi: la spasmodica attenzione dei media inglesi. Un’attenzione che non gli era certo sconosciuta, data la pletora di ex fidanzate: prima Kylie Minogue, poi Helena Christensen e infine Paula.

Così come non voleva che il suo valore si misurasse in base alle canzonette, come quella Need You Tonight, nata in poche ore, e che ancora oggi suona come eterna. O – peggio ancora – attraverso le risse coi paparazzi, che ormai affollavano la sua quotidianità. Paparazzi sotto casa, paparazzi al ristorante, paparazzi in ogni angolo di Londra per carpire anche solo un frammento di quella coppia così fragile e bella. Un amore nato anni prima, praticamente in diretta televisiva, durante una leggendaria intervista sul letto.

The Big Breakfast, 1994 – quel momento in cui un uomo guarda la tv e capisce che il suo matrimonio è finito.

Sinossi di un successo

La carriera degli INXS aveva rispettato tutte le tappe tradizionali di una band australiana. Gli esordi nei pub alla fine degli anni Settanta, con una formula new wave/ska da cui in parte avevano preso subito le distanze. Il debutto americano con l’album Shabooh Shoobah e la graduale conquista del mondo con Kick (1987).

Ogni album diverso dall’altro, senza mai creare confusione, complice il fatto di non aver mai cambiato line up (Hutchence, i tre fratelli Farriss, il sassofonista Kirk Pengilly e il bassista Garry Beers). Una band che Michael, pur essendone il leader indiscusso, non aveva mai tentato di sovrastare, e che per lui era tutto. Una band che si stava dissolvendo, ma che gli faceva intravedere un’altra vita artistica possibile: la sua, fuori dal gruppo.

E in quella vita era appena entrata una presenza nuova e decisiva.

Spoiler – band formative.

Meet Andy Gill

L’ammirazione che Michael Hutchence nutriva per i Gang of Four – ammirazione che appare piuttosto evidente nella prima produzione degli INXS – era qualcosa che l’aveva portato a voler conoscere Andy Gill a tutti i costi. Aveva anche scritto una nota di copertina per la ristampa di Solid Gold, album capolavoro della band inglese, in cui lo descriveva come «arte che incontra il diavolo, passando per James Brown».

Hutchence aveva cominciato a mettere le basi per un album solista nel 1995, avvalendosi della collaborazione di Tim Simenon (Bomb the Bass). Un giorno decide di farsi coraggio: prende il telefono e chiama Gill, chiedendogli se per caso volesse suonare “qualcosa” per lui. Dieci minuti dopo lo richiama per alzare la posta: perché non scrivere con lui tutto l’album? Gill lo raggiunge da lì a qualche giorno nella sua casa di villeggiatura a Roquefort-les-Pins, in Costa Azzurra. Un incontro caldeggiato da un vicino illustre, quel Bono degli U2 che da anni viveva quasi stabilmente nella limitrofa Èze-sur-Mer.

Per lavorare con Gill, Michael appronta un piccolo studio di registrazione al piano superiore della sua villa, mentre – dal canto suo – Gill si prepara a mesi di pendolarismo Roquefort-Londra, portando con sé alcuni dei suoi computer. I due passano ore, giorni, mesi, a plasmare nuove canzoni. Funzionava così: Andy creava le basi e Michael ci cantava sopra. Spesso entrambi lavoravano ai testi. C’erano canzoni d’amore, canzoni dedicate a Paula, e poi c’erano quelle oscure. Spesso non c’era un vero e proprio ritornello, spesso la struttura era irregolare.

Gill registra ogni suo respiro, ogni sua risata. A distanza di anni, ricordando quei giorni, descriverà quel periodo con un misto di rammarico e divertita, nostalgica tenerezza.

Ridevamo molto, ma fu molto intenso. Ci spaccammo la testa. (Andy Gill)

Da quelle sessioni uscirà una manciata di canzoni incomplete e di mix grezzi, perché a un certo punto, Hutchence dovrà iniziare a lavorare all’ultimo album degli INXS, Elegantly Wasted.

Un titolo che riassume un’autobiografia: strafatto con eleganza.

Pezzi di vita lasciati in giro

Nel documentario Michael Hutchence - The Last True Rock Star! del 2017, che ha come punto di partenza l’apertura degli archivi dell’artista e la lavorazione del suo album solista, Gill torna in quella villa a Roquefort, e si commuove. Ricorda che Michael era uno a cui non si potevano dare troppi ordini: scattava subito il vaffanculo. Ma sottolinea anche aspetti assai più dolci del loro rapporto. Uno su tutti – l’essere stato il suo traduttore di sensi. Quando capitava di bere del vino assieme in quella casa, Michael, che non poteva sentirne più il sapore, chiedeva a lui di raccontargli com’era. Elencarne le caratteristiche, il retrogusto, come un esperto sommelier.

Le proprietà di Hutchence si snodano nelle varie città in cui la sua vita si era svolta: collezioni di chitarre e quadri in un deposito di Zurigo, foto di famiglia e quaderni pieni di appunti a Los Angeles, un pianoforte in un magazzino di Londra. Ma più di ogni altra cosa, nastri su nastri, lasciati a dormire in una cassa di sicurezza per quasi vent’anni. Nastri che poi sarebbero tornati nelle mani di chi più ne aveva diritto: proprio Andy Gill.

Bizzarro ricordarlo ora che nessuno dei due fa più parte di questo mondo. Come del resto, non c’è più nemmeno Paula.

Canzoni che sono un testamento.

Colmare i vuoti

Durante le sessioni francesi, Gill suona basso, chitarra e si occupa della programmazione delle tastiere su gran parte dei pezzi. Dopo la morte di Hutchence, avrà un compito ben più arduo: portarle a termine. Ci lavorerà in quasi totale solitudine per mesi, avvalendosi della collaborazione del produttore Danny Saber. Un lavoro certosino e appassionato, fatto di escamotage per colmare i vuoti: filtri sulla voce per ovviare ai difetti di un’incisione casalinga, nel tentativo di rispettare con la post-produzione le intenzioni iniziali.

Michael Hutchence uscirà il 14 dicembre del 1999 (Virgin-V2). Un disco ricco e traboccante di personalità, in cui è inevitabile la percezione del rammendo. Canzoni che raccontano alla perfezione lo stato d’animo di un uomo stanco di essere la pedina di un gioco sporco.

In uno dei brani trainanti dell’album, Slide Away, mancavano troppe parti vocali e così Gill le aveva fatte cantare a Bono (a dire il vero, l’onda lunga degli U2 si stende su una buona parte del disco). Anche in quel pezzo, come in tutti gli altri, ci sono i segni evidenti di un malessere. A tratti, anche di un testamento.

Un testamento di cui Andy Gill si prese cura.

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