Nonostante faccia di tutto per scoraggiarne l’ascolto, e si limiti a macinare concerti come se fosse più una dipendenza che una passione, la musica di questo cagnaccio rognoso – che ha sessant’anni e l’anima di un adolescente incazzato – ha una forza d’attrazione irresistibile e necessita di un’indagine per capire perché. Indagine che lo porterebbe sicuramente a mandarci a cagare.
Attenzione: Giorgio Canali contiene parolacce, bestemmie, alcol, sesso, politica, religione, negatività e merda. E non è invecchiato per niente bene, anzi con gli anni è peggiorato, sempre più incazzato, rabbioso, per niente diplomatico e assolutamente incurante dell’opinione degli altri, così come di tutti quegli aspetti del marketing e della gestione dei social a cui i suoi colleghi danno un’importanza spasmodica. Del resto, lo dice lui stesso che è un vecchio di merda, tanto che gli hanno dedicato un brand di magliette apposito.
Eccolo, Giorgio. Capelli lunghi e grigi come li portava in quel periodo, faccia scavata, il classico microfono con l’asta messa di lato, pronto per essere preso invariabilmente a capocciate, una chitarra e una loop station, davanti a pochi ragazzi che si passano almeno tre generazioni con lui. Quando è in questa veste monoporzione, di solito si chiama Rossosolo. Canzoni interrotte a metà per fare battute nemmeno troppo bonarie sul pubblico e sulle luci di palco («sembra una recita parrocchiale», «forse era meglio prima, siete veramente orribili»), strofe invertite e ritornelli spostati tutti alla fine a seconda dell’umore, ma soprattutto nessun atteggiamento, nessuna posa, nessuna ruffianeria, nessun filtro.
Ce n’è stata, nell’alternative rock italiano, di gente che ha rovinato una buona sostanza artistica con una maschera di troppo, con un eccesso di indulgenza nell’autocompiacimento e in una depressione falsa come una moneta da 3 euro, con un pizzico di attenzione di troppo al target e alla reazione del pubblico. Lui no. Lui è un capitano di lungo corso, anche se come cantautore esiste solo da una ventina d’anni. Oggi, nei festival e sui palchi condivisi, spesso si accoda o apre a gente che gli deve moltissimo, ma che è più seguita, più in linea con la propria immagine, più cool. Però sembra fregarsene: l’importante è avere l’occasione per sputare i polmoni dentro un microfono, cantando una nuova vecchia canzone di merda, fra una bestemmia e un sorso di vodka.
È proprio a questo che tiene di più. Anche se gli ultimi due album appaiono parecchio curati come suono e produzione, e pure se molti suoi testi richiedono attenzione meticolosa ai dettagli per essere capiti, in generale le canzoni di Canali sono un ponte verso il palco. I suoi Rossofuoco – il nome è già una dichiarazione d’intenti – riescono a incastrarsi e a seguire alla perfezione l’approccio volubile e umorale che ha con le proprie creature, che cambia e trasforma sul momento anche quando suona con la formazione completa.
E tirare giù tutto è la missione ultima, ogni singola cazzo di volta, altrimenti è un fallimento. Attitudine da veri punk, dove l’espressività, il colpire duro al petto, il picchiare come fabbri – nel caso del batterista Luca Martelli, condiviso con Pelù e i Litfiba – e lo sturare le orecchie del pubblico – parlando di Marco “Testadifuoco” Greco, Stewie Dal Col e Giorgio stesso, che spesso si lancia in assoli dissonanti al limite del noise – si mangiano precisione e pulizia e le rendono inutili e irrilevanti, restituendo uno spettacolo tutto viscere, cuore e sangue. I fedeli pards intorno fanno fuoco e fiamme. Lui è lì, al centro, scoglionato e alticcio, a sputare la sua verità con lo stesso spirito con cui un animale farebbe quello che fa per istinto: bere, alimentarsi, fare sesso, pisciare in giro per marcare il territorio.
«Come un animale che non sa capire, come un animale nel tempo di morire», insomma. E Giorgio, di questo, ne sa qualcosa.
Capitano di lungo corso, si diceva, perché Giorgio Canali è un po’ il Dave Grohl de noantri: prima di diventare se stesso, è stato chitarrista e fonico in una delle avventure più coraggiose e meno eguagliate della musica italiana, che passa sotto tre acronimi giganteschi – CCCP, C.S.I., P.G.R. – e soprattutto dai secondi, più maturi e sperimentali anche dal punto di vista sonoro, si è portato via moltissimo, mescolando quegli elementi in una chiave diversa e più personale per generare qualcosa di altrettanto unico.
Per anni poi ha vissuto quasi stabilmente in Francia, dove si è incrociato coi Noir Désir, e l’esperienza accumulata come tecnico audio di Litfiba e PFM lo ha portato ancora dopo a muovere i fili di moltissime piccole e grandi situazioni nell’underground italiano, spesso collegate a La Tempesta Dischi dei Tre allegri ragazzi morti, che lo produce come solista.
I Joy Division (che ha tributato dal vivo con Angela Baraldi, nel 2017) e la new wave, il punk, il noise, l’alternative, specie se orientato politicamente. Ma anche i cantautori – i Guccini, i De André, i De Gregori, i Paolo Conte, i Dylan e i Cohen – che cita, taglia e ricuce e a volte prende in giro (per esempio in Rifugi di emergenza – «Ti rifugi dentro a un bar / All’ombra dell’ultimo sole / Lunga e diritta corre spietata / La lagna di un cantautore») con l’odio affettuoso che si rivolge al padre quando si è giovani e punk. Aggiungete tutto quell’humus emiliano alternativo da cui è uscito e otterrete gli ingredienti di Giorgio, le strade convergenti che in lui trovano un incrocio.
Eppure, a sentirlo, non riesci a ricondurlo totalmente a niente, a nessuna scena, a nessun movimento o parrocchia se non quelli degli emeriti cazzi suoi.
Con il compagno di viaggio più ingombrante, Giovanni Lindo Ferretti, è rimasto in buoni rapporti nonostante quell’insieme di circostanze imprevedibili che l’hanno trasformato da punkettone filosovietico a defensor fidei postmoderno, con un occhio ai Cavalieri templari e uno a Giorgia Meloni. Canali, però – pur difendendolo e rimproverandolo con affetto – è rimasto dalla stessa parte, che è sempre stata chiara e limpida: molto, ma molto a sinistra, con una sincera spruzzata di anarchismo punk (più stile Clash che Sex Pistols).
Se lo si vuole capire dal punto di vista politico, basta ascoltare bene Lettera del compagno Laszlo al colonnello Valerio, scritta per la compilation Materiali Resistenti del 25 aprile 2010 ed esclusa per le due rabbiose bestemmie finali – o piuttosto perché poco aderente al volemose bbene delle giornate della memoria istituzionali, piena di un’incazzatura ancora troppo viva, violenta e dinamitarda: «Non dovevamo fermarci / Si doveva continuare / Si fa con lo schioppo / L’unità nazionale / Mandando ogni uomo / Vestito di nero / Prete, fascista o sbirro del Re / Al cimitero».
Giorgio commenta, chiaramente, alla Giorgio:
A nessuno piaceva come suona 'sta cazzo di armonica.
Che in effetti è disturbante, penetrante, volutamente sgraziata come tutto il pezzo e la rabbia che porta con sé.
Quello che rende appetibile la musica canaliana è il fatto che rimane comunque molto sua. Schierato sì, ideologico no: nessuna iconografia, nessun partito, nessun flirt con questa o quella forza politica. Lui pensa per sé, non cerca apostoli, non canta slogan, non esce dai confini del suo mondo e rimane connesso soltanto con le proprie budella (gut feelings, direbbero gli anglofoni).
E c’è tanto di intimo, a volte spudorato, personale molto prima che sociale. Ci sono tormenti, angosce, c’è la voglia di distruggere i meccanismi più meschini degli esseri umani sbeffeggiandoli, ma sempre dopo averli capiti e vissuti dall’interno. Un pessimismo adolescenziale filtrato da una poesia matura, anche più anziana dei dati all’anagrafe, e un uso della parola squisito, colto e intelligente dietro la vena sboccata e menefreghista – tutte le paure di un uomo che sta al mondo con disagio (sentirsi, a conferma, Quello della foto), ma che è consapevole, non finge, non pretende di insegnare, e non si vergogna di confessarlo. E una gran voglia di vomitare, ma con stile.
Precipito, Mostri sotto il letto, Nuvole senza Messico: inni da cantare senza pudore, che lasciano l’impressione di parlare con un ragazzo un po’ attempato all’esterno – un vecchio di merda, appunto – che dentro ha un fuoco che non riesce a spegnere, da ventenne di sessant’anni. Anche un po’ autocompiaciuto.
Sarà che in fondo dentro a questa nebbia ci sto bene / Sarà che questo pessimismo troppo spesso mi conviene / Saranno gli occhiali da sole / Sarà l'umidità / Sarà che se canti La vie en rose / Io ci vedo La mort en noir.
Di queste ragazze che «fanno il nido in mezzo alla tempesta» Giorgio parla spesso. Addirittura finisce per immedesimarcisi e capirle, come in Tutti gli uomini. È dura vivere serene quando si ha a disposizione un’infinita scelta di idioti, che «sbocciano come fiori sugli alberi», e sapendo che prima o poi – per citare l’amato Ian Curtis – love will tear us apart, again.
Poteva un sessantenne scegliere un titolo del genere per un album, invece, per esempio, di D’amore, di morte e di altre sciocchezze? Sì, se quel sessantenne si chiama Giorgio Canali. E la dissonanza cognitiva che ci si aspetterebbe non c’è: è tutto piano, liscio, armonico, puro distillato di Rossofuoco, e forse l’album più organico, più concept della carriera fino a quel punto (cioè il 2018). Messaggi a nessuno e Fuochi supplementari sono perfette manifestazioni dello spirito canaliano, seguiti ideali di Lezioni di poesia: ballate come colpi di pistola, che ti legano alla sedia e costringono a fermarsi per guardarsi dentro. In Piove, finalmente piove e nella citazionista/autocitazionista Emilia parallela c’è il rock violento con retrogusto di punk e lo sguardo spietato sul circostante, mentre in Radioattività – trascinante e inesorabile, una cascata di immagini in crescendo continuo – e Undici le due anime si mescolano in un bel frullato di personale e sociale dal colore omogeneo e dal gusto irresistibile.
Tanto che da quel punto in poi diventano tutte CDM, canzoni di merda. «Sempre la stessa merda», come diceva Nick Cave della propria musica. «Dai, facciamo un’altra canzone di merda» è quasi l’unica cosa che Canali dice al microfono tra un pezzo e l’altro. E tanto basta.
Proprio alla fine di uno sciagurato 2020, l’uscita di Venti – che a questo punto poteva anche chiamarsi Venti canzoni di merda con la pioggia dentro – replica, amplia e migliora ancora l’album che lo precede. Venti sfoghi pandemici, ancora più diretti, più suoi, nel bene e nel male.
Nelle dichiarazioni pubbliche l’incendiario punk di Predappio assume dei punti di vista controversi sul virus, sempre un po’ in bilico fra il (legittimo) esercizio del dubbio verso le direttive di governo e qualche ambiguo flirt con il negazionismo, senza effettivamente abbracciarlo. Ad ascoltare le canzoni, che risplendono del neon riflesso di un mondo distopico, lui però convince sempre, perché dipinge quello che vede con i suoi occhi «di ghiaccio, come il mio cuore».
Nonostante mi fossi imposto di non parlare della pandemia in questo disco, a furia di buttare fuori pensieri e parole ci sono cascato dentro.
C’è sempre la ribellione rabbiosa di un uomo che vive solo di concerti, che arriva dai pezzi più sociali (alcuni dei quali tradiscono la sua intelligenza linguistica e il suo divertirsi con le parole, vedi Canzone sdrucciola). C’è un gioco di citazioni e a volte autocitazioni (uno e due, per esempio) più che mai limpido e insistito, una girandola di rimandi cantautorali, cinematografici, letterari e ancora altro. Ma c’è pure, interiormente, una serenità nuova, una voglia di abbandono (Vodka per lo spirito santo) e di andarsene verso una fase diversa della vita. Tutto che finalmente trova il suo compimento in una ballata folk, quasi dylaniana, che chiude l’epopea del disco: Rotolacampo. Una quiete che non ti aspetti, trovata raccogliendo i pezzi di un’anima frammentata, per tenerli insieme mentre si fa vela verso qualcos’altro. E Giorgio Canali, che in Mostri sotto il letto ci gridava «sarà che non l’ho mai cercata, la felicità», qui si rimangia tutto, con un’ammissione un po’ amara e un po’ sardonica, come a dire: guardate che vi ho sempre – e mi sono sempre – preso per il culo.
Quando cambia la luna / C'è un treno per Yuma / Per partire aspettano me.