Bravi sì, belli meno.
Se vogliamo parlare del geek rock come di un genere semantico più che musicale, è quanto mai lecito riconoscerne gli emblemi in quell’atteggiamento fatto di trovate tanto malate quanto geniali, in un appeal che fa colpo su musicisti pronti all’emulazione ferrea e pedissequa, in un’estetica che certo non punta a far colpo in discoteca sulle biondone degli anni Ottanta.
Geddy Lee, Alex Lifeson e Neil Peart sono stati maestri in questo. Basti pensare – in mezzo alla loro magniloquente discografia – a un pezzo come YYZ, basato sul codice IATA dell’aeroporto Pearson di Toronto. Lifeson era rimasto di stucco quando aveva sentito la ritmica del codice morse che passava attraverso la radio del pilota mentre stavano per atterrare.
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YYZ (pronunciato “Why-Why-Zed”) è tratta dall’album capolavoro Moving Pictures del 1981 e da allora coincide con quel momento di ogni concerto dei canadesi in cui tutti i fan più nerd si ritrovano davanti a fare air drumming. Anche se è sempre presente un assolo in quella parte, il pubblico sembra comunque conoscere già a memoria ogni colpo.
Oggi fortuntatamente riconosciuti come la grande band che sono stati, i Rush hanno però vissuto per molto tempo relegati tristemente nel comparto stagno di una nicchia di aficionados non cool. Una buona lettura, in questo senso, è offerta dal libro del 2009 di Chris McDonald Rush, Rock Music, and the Middle Class, in particolare dal capitolo Riflessi in un altro paio di occhi: rappresentazione dei fan dei Rush. Archetipi affascinanti, signori, ma che di sicuro non eccellevano nell’arte del limonare dopo le partite di beer pong.