Abracadabra. Magicabula. Bidibibodibibù.
Si può parlare di una band anni Settanta e risultare assolutamente nerd? Come no. Perché se da un lato mettiamo i Led Zeppelin e la loro capacità di conquistare un pubblico variegatissimo, dall’altro troviamo i Focus di Thijs van Leer, idoli di gente che al liceo non era sicuramente considerata figacciona. Ve lo vedete mettere uno yodeling a un party nella Amsterdam dei Seventies?
A dirla tutta, è un peccato. Perché la polvere a cui il nome Focus è andato incontro è molta e molto spessa. E pensare che come orchestrina da buca del musical Hair – versione olandese, naturalmente – non erano neanche male. Pur non chiamandosi Ian Anderson, Thijs van Leer non era di certo un personaggio da sottovalutare. Senza considerare il fatto che, nel corso degli anni, i Focus hanno rilasciato 15 album, 8 prima dello scioglimento del 1986 e 7 dopo la reunion post-2000.
Basta sentire questo pezzo e l’interpretazione surreale che ne fa la band per capire l’entità di una formazione del genere. Il falsetto del frontman, le sue sortite di flauto, gli assoli di batteria di Pierre van der Linden e l’estro chitarristico di Jan Akkerman sono combinazioni letali, soprattutto in canzoni come il mitico hard yodel che è Hocus Pocus, caposaldo della tradizione dork music.
Il brano è tratto dal primo successo della band, Focus II / Moving Waves, uscito nel 1971. Hocus Pocus è una locuzione magica usata in molte culture e letterature, il cui significato letterale resta ignoto. Probabilmente ha solo il suono giusto per lasciare un certo alone di mistero. Quindi, associata alla canzone – e al suo testo – diremmo che è perfetta.