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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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I Flaming Lips e la musica del caos

Metodica follia eletta a linguaggio e arte a tutti gli effetti.

Creare la (con)fusione rientra tra i compiti del genio. In quasi quarant’anni di carriera, tra svolte e giravolte, i Flaming Lips hanno reso entrambi una ragione di vita e le sorprese non sono mai mancate. Ultima in ordine di tempo, una rinascita sulla quale non avremmo mai scommesso. O forse sì.

Punky Freak Party

Ciclicamente, chi racconta la popular music e ne analizza i meccanismi riflette anche sulla “funzione” di un artista. In altre parole, si domanda quali possano essere il ruolo che ricopre nel panorama storico e il contributo al canone stilistico di riferimento. La questione si complica – e meno male: sai che noia, altrimenti – per chi contamina e scavalca i generi come i Flaming Lips. Artefici di un rock da post-apocalisse – smantellato e ricomposto con uno stupore fanciullesco degno di un William Wordsworth sotto LSD – da sempre trasformano l’inafferrabilità in arte.

Rifiutando le mezze misure, prelevano cocci e avanzi da un’immaginaria discarica per sbozzarli in forme inaudite. In maniera simile al futuro “usato” concepito da George Lucas in Star Wars, gli oggetti forgiati da questi antieroi sono fantascientifici ma ammaccati, perciò vivi. Soggetti smarriti che paiono sbucare da un romanzo di Thomas Pynchon, questi freak sono maestri nell’armonizzare i contrasti, così che la loro anima escapista e squilibrata nasconde un lucido estremismo, un profondo sguardo sul reale, una ricerca attenta del senso della vita. Ed è stato per raccontarla, la vita, che i ragazzi hanno lasciato il nulla piatto e conservatore dell’Oklahoma in cerca di una redenzione.

Ma il nulla piatto dell'Oklahoma non ha serbato loro rancore. Anzi, ha dedicato ai mattacchioni pure una strada. La trovate nel quartiere di Bricktown.

Nell’incessante reinventarsi e reinventare, le cover rappresentano una preziosa cartina al tornasole: in una lista lunghissima ed eterogenea sfilano Who, Kylie Minogue, David Bowie, Devo, Sonic Youth, Queen, Sonics, Echo & the Bunnymen e moltissimi altri. La “scatola nera” dei Flaming Lips contiene l’ovvio e l’inatteso, le icone dissacrate e il trash ipotetico, i tributi e i plagi. Tutto rispecchia l’attitudine di chi, per costruire un domani, si confronta con la storia, la smonta e se ne appropria. Di chi si lancia senza paracadute in trip dall’estasi al tormento e compone perfette colonne sonore del subconscio.

Come sappiamo, al buon Major Tom non gli è andata tanto bene. Il funerale però è stato uno spettacolo.

L’umana imperfezione della voce di Wayne Coyne e il suo pazzo mondo sistemano istinto e ragione su una lama di rasoio. Già “espanso” di suo, il nostro alchimista non ha bisogno di sballarsi ed è per questo motivo che, come per Daniel Johnston, la sua è una fragilità nella quale ci identifichiamo. Perché ci insegna che lo scarto netto e la curva improvvisa possono aiutarci a vivere meglio ogni santo giorno.

Nel frattempo, l’astronave Flaming Lips prosegue il suo viaggio di esplorazione verso strani mondi. Là dove nessun uomo è mai giunto prima.

Seeing the Unseeable

Nel 1907 l’Oklahoma fu tra gli ultimi stati ad aggregarsi all’Unione. La sua produzione di gas, petrolio e grano è però fondamentale e, tra pianure e piccole catene montuose, gran parte degli abitanti risiede a Tulsa e nella capitale Oklahoma City. Lì, nei primi anni Ottanta, Wayne suona la chitarra combattendo la noia in garage col fratello cantante Mark e Michael Ivins, bassista e braccio destro lungo tutta la vicenda. Un po’ di rodaggio e con Richard English dietro tamburi e piatti nel 1983 i Flaming Lips (nome che si dice ispirato a un sogno in cui la Vergine Maria baciava Wayne – cominciamo bene, no?) si autoproducono un omonimo EP. Il vinile verde – marchiato Lovely Sorts of Death, in spiritosa citazione del celebre acronimo lennoniano – racconta un ruvido impasto di hard rock, neopsichedelia e post-punk.

Causa abbandono del fratellino, tre anni più tardi Wayne si impossessa del microfono, firma un contratto con l’Enigma e conduce il power trio all’LP. In Hear It Is piacciono gli omaggi agli Hüsker Dü e al punk’n’roll misto di glam e proletariato AOR messo a punto dai Replacements, tuttavia a impressionare è il materiale meno classificabile: una With You che media Thin White Rope e Sonic Youth nel dinamismo di acustico e deflagrante studiato attentamente dai Motorpsycho, i Black Sabbath che strapazzano Space Oddity nella dilatata Jesus Shootin’ Heroin, la bruma acidula She Is Death, lo stranito folk rock Godzilla Flick.

Oggi suona così. Ovvero praticamente come 35 anni fa.

Il pregevole biglietto da visita preannuncia la follia eletta a metodo di Oh My Gawd!!!. L’anno seguente, una copertina da incubo opera dello stesso Wayne e due espliciti riferimenti ai Beatles sigillano un vigoroso hard attualizzato (Prescription: Love, The Ceiling Is Bendin’) e blues per il nuovo millennio (Maximum Dream for Evil Knievel, Ode to C.C., Pt. II), ipermelodiche cavalcate punk (Everything’s Explodin’, Can’t Stop the Spring) e psico-delia sfolgorante (One Million Billionth of a Millisecond on a Sunday Morning, Can’t Exist), demolizioni dell’Album Bianco (Love Yer Brain) e inchini ai R.E.M. (Thanks to You).

Travolgente e impavido, l’ingegno sta cercando un vago centro di gravità.

Molto punk anche lo stile del cameraman.

Doctor Feelgood

Che la via per trovarlo sia lastricata di buone intenzioni lo spiega entro ventiquattro mesi Telepathic Surgery. A eccezione del chilometrico ordigno fine-di-mondo Hell’s Angels Cracker Factory, dal cumulo di bozzetti e stramberie piuttosto sfocate emergono le canzoni più compiute. Su tutte, le Drug Machine in Heaven, Redneck School of Technology e Begs and Achin percorse da un impeto grunge, il glam lisergico Chrome Plated Suicide, gli acid-folk estatici oppure mesti Shaved Gorilla, The Spontaneous Combustion of John e The Last Drop of Morning Dew.

Cliché di psichedelia applicata al video editing ne abbiamo?

Il passo indietro spiega che è ora di passare a un diverso approccio. L’anima affine Jonathan “Dingus” Donahue aiuta entrando in qualità di chitarrista nel gruppo che, superato un momento di incertezza, sostituisce English con Nathan Roberts. Inoltre, alla regia di In a Priest Driven Ambulance siede un Dave Fridmann da qui in poi basilare. Portando a un crocevia onirico però inquieto Beatles, Jesus & Mary Chain e Thin White Rope, il quartetto più uno libera finalmente le proprie potenzialità in un’epocale fusione a caldo tra noise, trasversalità pop, psichedelia muscolare e folk.

Se Shine on Sweet Jesus e Unconsciously Screamin’ disegnano gli eredi degeneri del White Album e del Magical Mystery Tour, il fragore sparso da Mountain Side e God Walks among Us esalta nel mentre un poker di eccelse ballate (Rainin’ Babies, Stand in Line, Five Stop Mother Superior Rain, There You Are) riadatta la malinconia di Roky Erickson e Syd Barrett e la struggente cover di What a Wonderful World cancella lo spudorato ricalco dei Can in Take Meta Mars. La somma restituisce un capolavoro baciato da ispirazione e sincretismo fuori dal comune e proiettato a velocità supersonica nel cuore del decennio che incombe.

Turn it on at Full Volume

Vi ricordate quando nei Novanta ogni cosa diventò estrema? In giro c’era tanto e di tutto, per qualcuno persino troppo. Nel triennio ‘91-‘93 la spasmodica ricerca di nuovi Nirvana condotta dalle major provoca danni rilevanti nell’underground a stelle e strisce: delle numerose reclute, alcune imploderanno senza drammi, altre rimpatrieranno su lidi indie e qualcuno ci rimetterà la pelle. Eccentrici per vocazione, i Flaming Lips entrano senza contraccolpi nell’alta società che tuttora frequentano.

Assoldati dalla Warner Bros. dopo un’esibizione conclusa con dei fuochi d’artificio che quasi incendiano il locale, nel 1991 sfacchinano sul nuovo disco che però esce con un anno di ritardo per un contenzioso legato al frammento della colonna sonora di Brazil inserito nella dolente You Have to Be Joking. L’attesa è ripagata dall’ottimo Hit to Death in the Future Head, che inserisce dettagli e finezze in una compatta popedelia chitarristica intervallata da meste e allucinate rifrazioni.

A vedere il video, più che "rane" avrebbe dovuto intitolarsi "bocche".

Privi di coloranti e conservanti, acid-bubblegum del calibro di Talkin’ ‘bout the Smiling Deathporn Immortality Blues, Frogs e Hit Me Like You Did the First Time sposano piglio e immediatezza, laddove una The Sun in punta di violoncello e tromba, l’indizio di futuro nei Velvet Underground orientaleggianti di Hold Your Head e i sensazionali Jane’s Addiction color pastello di Halloween on the Barbary Coast indicano che la vena di insania non è esaurita. Semmai, ha sfruttato i mezzi a disposizione per assumere forme un poco più lineari.

Satellites of Love

Il prezzo pagato sono le defezioni di Roberts e Dingus, assorbito in via definitiva dai Mercury Rev. Subentrati il virtuoso della sei corde Ronald Jones e Steven Drozd, uno strambo polistrumentista destinato a rimanere, nel ‘93 accade l’impensabile: assente Dave, il vice Keith Cleversley tira a falso lucido Transmissions from the Satellite Heart scatenando quindici minuti di fama. MTV, Letterman e un irreale e quindi appropriatissimo cameo in Beverly Hills 90210 aiutano il gioiello She Don’t Use Jelly a trascinare nei Top 40 il fiammeggiare T.Rex di Turn It on e Be My Head, i Dinosaur Jr. che si pensano giovani Pink Floyd in Slow Nerve Action, Pilot Can at the Queer of God e Superhumans, le squinternate filastrocche Oh, My Pregnant Head e Moth in the Incubator.

Chiamati sul palco nientepopodimeno che da Valerie!

Ma non dimentichiamoci che parlavamo di smalto ingannevole. L’insieme vive infatti di un eccesso subliminale che frena poco prima del collasso, spalancando la confessione in bassa fedeltà Chewin’ the Apple of Your Eye e una struggente rilettura country folk di Plastic Jesus, prelevata dal film Nick mano fredda. Il successo è meritato eccome, ma molto meno gli sfiancanti tour a supporto di Red Hot Chili Peppers e Candlebox che portano via due calendari.

Tutto quello che si può accendere lo accendiamo.

In Clouds Taste Metallic, Fridmann rientra alla base per un godibile indie-psych che offre ciò che il pubblico (non) si aspetta. Tra Big Star a spasso per The Piper at the Gates of Dawn, sunshine pop corretto illegalmente, giostrine sbiellate ed esercizi di (auto) stile spiccano il Neil Young in technicolor di The Abandoned Hospital Ship, il country deviato Brainville, i carillon psichedelici When You Smile, This Here Giraffe e Christmas at the Zoo, le Evil Will Prevail e Bad Days dove Alex Chilton e Brian Wilson si chiudono in una stanza con Lennon & McCartney. Più che metallico, il gusto delle nuvole è dolce e dietro l’angolo soffiano venti di cambiamento.

Metal Machine Pop Music

In coda al 1996 Ronald non regge lo stress. I superstiti si prendono una vacanza e il destino ci mette il resto: Ivins scampa a un incidente, il padre di Wayne muore e Drozd ha problemi di tossicodipendenza. La risposta agli schiaffi dell’esistenza è la parentesi dadaista inaugurata dal “Parking Lot Experiment”, happening nel quale trenta autoradio eseguono all’unisono parti delle stesse canzoni.

Nel 1997 Zaireeka espande l’idea a un intero album scomposto in quattro CD da riprodurre contemporaneamente: più della musica – variabile “fluida” che non nasconde una certa mediocrità – conta il significato del gesto. Scartata l’ipotesi della presa in giro, colpisce soprattutto il tentativo di rendere l’ascolto un’esperienza (inter)attiva. La digressione termina con i “Boombox Experiments” che dal vivo alterano nastri con le enormi radio tipiche dell’hip hop.

In retrospettiva è evidente che ai Flaming Lips serviva un bagno nello sperimentalismo per ripartire da zero, integrando l’avanguardia con una forma canzone che stava rinascendo dopo aver raggiunto il limite del decostruzionismo. Missione compiuta con The Soft Bulletin, capo d’opera sul quale i Sagittarius del Duemila di Suddenly Everything Has Changed amabilmente mentono: tutto non è cambiato all’improvviso. Sì, perché questa psichedelia romantica e caleidoscopica arriva dopo un processo nel quale il coraggio si è confrontato con la maturità garantendo un’introspezione dal taglio surrealista, un uso arguto dello studio di registrazione, l’orchestrazione di tastiere e archi a scapito delle chitarre.

Elementi che nel tessuto cucito con Fridmann si saldano a una penna in divina grazia, dalle trascinanti Race for the Prize e Buggin’ ai trasognati pastiches Spoonful Weighs a Ton e What Is the Light? passando per Slow Motion e The Spark that Bled, dove un morbido funk incontra la psichedelia britannica. Altrove Waitin’ for a Superman porge superbo pop dolceamaro, The Gash avvolge disinvolta il gospel in pompe teatrali, The Observer mescola i DNA di Ennio Morricone e David Axelrod invocando il remix, Feeling Yourself Disintegrate fluttua leggiadra e Sleeping on the Roof è polvere atmosferica sfuggita a Brian Eno e Cluster.

Significativamente, The Soft Bulletin vede la luce nel 1999 e guadagna l’eternità nello stesso istante in cui riassume un’intera epoca.

L'ispirazione pare sia nata dall'idea di due scienziati che concorrono per trovare la cura a una qualche malattia. In pratica la colonna sonora della partita AstraZeneca vs. Pfizer, ma 25 anni prima.

The Dark Side of the Harvest Moon

Splendidi quarantenni, i Flaming Lips non si calmano. Perché dovrebbero, ora che possono smussare e limare la mezza età? Parla chiaro al riguardo un vendutissimo Yoshimi Battles the Pink Robots, che nell’estate 2002 affronta il Nine Eleven capitato nel mezzo delle registrazioni e inzuppa la disperazione in un bislacco trip hop ispirato dal progressive. Trovata ad alto potenziale kitsch che il retaggio alternative tempra e contiene con tastiere vintage e crepuscolarismo da polaroid.

Le carte sono scompigliate una volta di più da bassi tondi e grassi, folate di synth analogici, ricami acustici. Accanto alla Fight Test, per forza di cose portata in tribunale da Cat Stevens, brillano il dolce singolo Do You Realize??, la svagata Yoshimi Battles the Pink Robots, Pt. 1, intelligenti rivisitazioni degli Air come One More Robot/Sympathy 3000-21, Ego Tripping at the Gates of Hell e In the Morning of the Magicians, l’umanesimo vestito di folktronica per It’s Summertime.

Coniglietti (e conigliette), altro che gattini!

A dispetto di un paio di inciampi, il disco posa un altro variopinto tassello del puzzle. Meno spigliato e brillante, At War with the Mystics traduce il clima instaurato da Bush figlio in un pop stralunato che a tratti sfugge di mano. Un indubbio lavoro di transizione, ma rinunciate voi all’irresistibile doo-wop per androidi di Yeah Yeah Yeah Song, a una Free Radicals da Prince e Beck che si incontrano a un festino electrofunk, alle The Sound of Failure, My Cosmic Autumn Rebellion e The Wizard Turns on… che svecchiano la California easy dei ’70.

Grandi obesi alla riscossa.

Pannello conclusivo del trittico, nel 2009 Embryonic sciorina un inclassificabile eclettismo “neo-acid” in cui confluiscono groove krautfunk, lounge lisergica, congiunzioni tra le porte del cosmo che stanno su in Germania e la new wave, prog slanciato ed essenziale, meditazioni elettroniche, soul geneticamente modificato. Il vertice è la dolente e post-psichedelica Powerless, mirabile zampata dopo la quale i campioni si addormentano sugli allori.

(Back from the) Mountains of Madness

Forse sfiniti dallo sforzo, distratti dal privato o più semplicemente a corto di idee, negli anni dieci i Flaming Lips abbracciano il versante più scombinato della loro natura. Si fatica a scorgere qualcosa di rilevante in rifacimenti integrali di album altrui, fiacche collaborazioni, brani che durano sei ore o un giorno, chiavette USB occultate in teschi e altre amenità.

Ammettiamolo serenamente: sono stronzate d’autore in cui l’inventiva si squaglia con un fastidioso scricchiolio. Non un caso, allora, che l’unico momento degno spezzi l’autoindulgenza per tornare alla realtà.

Spalle al muro, Wayne ragiona sulla fine dell’amore con The Terror strappando la retorica dai Tangerine Dream, incastrando i Silver Apples in un nastro di Möbius e cospargendo di cenere Cabaret Voltaire e Suicide. Dai come germoglia un cosa che bisogna lasciar decantare: un enigmatico, cupo reticolo di chitarre, sintetizzatori e ritmi ipnotici che assomiglia ai segnali emessi dalle numbers stations. La catarsi è comunque temporanea, perché sia Oczy Mlody che King’s Mouth crollano sotto barocchismi senza causa e piattezza compositiva.

Quando non te l’aspettavi più, American Head manda in onda una resurrezione. In bilico tra allucinata madeleine e uno svagato Bildungsroman, questo delizioso film per la mente racconta l’adolescenza di Wayne intrecciando forma e contenuto e trasfigurando i Seventies in dimensioni parallele dove i Beatles non si sono mai sciolti (Will You Return/When You Come Down, Flowers of Neptune 6), i Pink Floyd partecipano con Todd Rundgren alle registrazioni di After the Gold Rush (Dinosaurs on the Mountain, Brother Eye) e Harvest (Watching the Lightbugs Glow, Mother I’ve Taken LSD) e Brian Wilson rinsavisce con “roba” di ottima qualità (At the Movies on Quaaludes, You ‘n Me Sellin’ Weed).

Di nuovo, guardarsi indietro e dentro significa guardare avanti per degli alieni che inquietano con Assassins of Youth e omaggiano DJ Shadow in When We Die When We’re High, che nell’apice Mother Please Don’t Be Sad trasformano la satira dei Rutles in un moderno teen drama spectoriano e infine scuotono l’anima con la policromia emozionale di God and the Policeman e My Religion Is You.

A questo punto della saga, tanto e tale ben di dio potrebbe rappresentare un definitivo colpo di coda o il presupposto dell’ennesima acrobazia. Chissà. Certo è che da questi mutanti in perenne mutazione ne ascolteremo delle belle a prescindere e fino alla fine. Perché loro sanno che, se mai esiste, la verità è là fuori.

Flaming Lips Wayne Coyne 

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