La volta che Damon Albarn ha trovato il coraggio di gridare aiuto a se stesso, lo ha fatto sottovoce. Per una volta ha messo in mostra l’uomo dietro l’autore, ripensando ai giorni di bambino e alla distanza percorsa nel frattempo. Tutto questo è successo sette anni fa, in un disco splendido con tutti i crismi del classico.
Fare musica è facile. Il difficile è renderla valida.
In determinati contesti, un certo rock d’autore riesce a cogliere lo spirito di un’epoca, trasformandosi in una cartina al tornasole del quotidiano che rispecchia i tempi, pur conservando intatte la magia e la capacità di raggiungere corde universali. Un fenomeno che in Inghilterra conosce una vera e propria dinastia di comunicatori sociali della canzone pop, inaugurata da Ray Davies, John Lennon e Paul McCartney, proseguita da Paul Weller e Andy Partridge e approdata – tramite la vis polemica di Mark E. Smith e Morrissey – al qui e ora di classici conclamati come Eddie Argos e Damon Albarn.
Lungo una serie di album epocali, il percorso si snoda seguendo una luce che non si spegne mai ed è parte integrante della società che la genera, modellando quello stesso Zeitgeist che altrove sottopone a giudizi anche severi. Non è un caso che i luminari di cui sopra risultino, con diverse sfumature, affiliati al club dei Cani Sciolti & Fustigatori di Albione: ognuno contribuisce a una tradizione antica che si riallaccia agli Angry Young Men, ai social studies e, più indietro ancora, alla sagacia di Charles Dickens e William Hogarth. Sostituite quadri e romanzi, commedie e film con la messinscena pop e avrete una cascata di preziosi diamanti che ironizza sul mondo letterario e sulla moda, che celebra l’orgoglio proletario o demolisce l’ipocrisia del sistema educativo. Se affidata a cavalli di razza, la canzone è una forma d’arte con potenzialità infinite.
Non sussistono dubbi su questo, come sul fatto che Damon Albarn appartenga con pieno diritto alla categoria e stia invecchiando con classe. Anche il solo Parklife potrebbe essere sufficiente a spiegarne le doti per come immortala un preciso momento storico nell’istante in cui se ne chiama fuori, distillando tre decenni di suono made in UK. Tuttavia c’è di più. Ci sono una personalità immediatamente riconoscibile e un intellettuale magari un po’ riluttante ma indubbiamente curioso verso ciò che gli ronza attorno. Saltava all’occhio all’epoca dei battibecchi orchestrati dalla stampa che costui non era condannato a un ruolo fisso sempre più patetico, e se il paragone con i fratelli Gallagher era improponibile nei medi anni Novanta, figuriamoci adesso.
Dotato di altra profondità, il mercuriale Albarn ha scansato gli stereotipi di una lad culture che non gli si confà (le sue radici stanno nella bohème borghese) preferendo l’eclettismo, le metamorfosi e gli scarti improvvisi di una creatività inesauribile. Impossibile annoiarsi inseguendo le mosse di chi rifiuta i clichés e le opzioni comode e, rispettoso del pubblico e del proprio talento, si mette continuamente in discussione. Pazienza se gli capita di essere un filo dispersivo. Importa che sia diventato grande (quando un grande lo era già – e da parecchio) con Everyday Robots, un ritratto dell’artista da uomo di mezz’età che custodiamo con la stessa dedizione che lo ha reso possibile.
Sono il tipo di persona che crede di poter fare sempre meglio. Non ho allori su cui dormire. Devo sempre andare avanti.
Come accennato, il ragazzo ha rischiato di sparpagliare le energie in imprese di varia natura, interessanti ma di tanto in tanto sfocate. Rimane l’unico peccato – comunque fisiologico e veniale – in una carriera che espande i canoni facendosi beffe delle convenzioni e dei limiti. Tenendosi stretti la credibilità e il successo, nulla vieta di sporcarsi con l’intera tavolozza, di confrontarsi con i colleghi e ricavarne intuizioni da elaborare. Anzi, il bello sta proprio in un’attitudine che ricorda la scossa elettrica di David Bowie quando dominava il mondo. Allo stesso modo del fu Duca Bianco, in Blur e Gorillaz fatichiamo a leggere l’interiorità dell’autore perché il teatro (meta)pop richiede che essa scompaia dentro la recitazione o, al massimo, la regia.
Che tu sia una rockstar in carne e ossa o virtuale, non fa alcuna differenza: nella migliore delle ipotesi trapelano soltanto accenni e indizi da decifrare come fossero rebus. Ciò nonostante, prima o poi arriva l’attimo fatidico in cui devi esporti, rinunciare alle maschere e ai filtri e, con le spalle al muro, modificare almeno in parte il punto di osservazione. In quel momento puoi decidere se chiuderti nel privato o pubblicare un disco. Dalla sommità della sua collina melanconica, nel 2014 Damon Albarn è pronto a metterci la faccia e più che altro il cuore. In tre quarti d’ora accantona ogni paravento e si racconta affidando i ricordi a un flusso di coscienza che evita il rischio dell’autoreferenzialità. Lontano da qualsiasi compiacimento, il fanciullino cresciuto nell’Essex alterna i tuffi nella memoria a riflessioni in massima parte emotive sul progresso, la natura, i rapporti umani. Tornato fisicamente nei luoghi dove è cresciuto, li soppesa da quaranta-e-qualcosa che nel frattempo ha conosciuto la fama e ne ha vissuto sulla propria pelle i pro e i contro.
Di conseguenza avrebbe ben poco senso guardare giù in strada con sardonico distacco e tratteggiare altre vignette di una Parklife ormai scolorita. Stavolta la faccenda è personale e richiede un cambio di prospettiva, ma siccome Damon osserva (da) dentro se stesso, ci tiene anche a sottolineare che il mondo sta cambiando in fretta e che ci stiamo isolando social(media)mente. L’amarcord si mescola con la realtà e, avvolte in una specie di impalpabile foschia onirica, le vite altrui sfumano nella sua e viceversa. Così, il senso ultimo di una crisi sfocia in un’evoluzione e il lato oscuro contribuisce alla nascita di un altro disco meraviglioso. Il più riservato e sfuggente del suo catalogo.
A pensarci oggi, segnali in quella direzione affioravano già dai toni di The Good, The Bad & The Queen, che sette anni prima vestiva l’uggia del capostipite Ray Davies con stoffe post-dub. Per quanto splendido, il disco era frutto di un supergruppo che sarebbe dovuto restare unico, pertanto il cono d’ombra attorno al “dopo britpop” non risultava granché scalfito. Lo stesso discorso vale per Plastic Beach, capitolo meno festaiolo e con tutta probabilità migliore della saga Gorillaz.
Da lì Everyday Robots prende le mosse per sciogliere i dubbi e scolpire un’identità autonoma sicura dei propri mezzi. Del tipo che, se ti senti solo e selezioni PLAY, lei ti terrà compagnia in eterno.
Se dovessi fare un altro disco solista, cercherò di aprirmi di più: vorrei farne uno senza riferimenti obliqui dall’inizio alla fine.
Sin dalla copertina è evidente che respireremo un’aria diversa. Lontano dal centro della foto che lo ritrae su uno sgabello, un Albarn con indosso abiti informali e lo sguardo rivolto a terra sembra rimpicciolito dentro il parka d’ordinanza. Le tinte seppiate e l’aspetto apparentemente dimesso preannunciano sonorità che scopri ridotte a uno scheletro essenziale e ciò nonostante solido. Una struttura “organica” ideale per ospitare il porgersi intimista, come se il diretto interessato ci stesse avvisando che stiamo per accedere a una ricerca di significati e di identità.
Siccome autoanalisi è il nome del gioco, la musica si adatta ai temi e all’intensità ricorrendo a pianoforti e chitarre acustiche, a influenze etniche e folk attualizzato, a macchine che diresti sull’orlo dell’inceppamento quando invece funzionano seguendo regole umane. Citando Bob Dylan, c’è sangue sulle tracce. Lo senti che gocciola da una seduta psicanalitica che apparecchia una versione del terzo millennio di Rock Bottom, sia per la dimensione di unicità che crea attorno a sé che per una fragilità utilizzata per costruire canzoni. Canzoni intense e nondimeno colme della leggerezza di Italo Calvino. Canzoni che nascono dalle difficoltà, le fissano dritte negli occhi e, senza timore, se le lasciano alle spalle.
Alla fine del processo ti trovi di fronte a un songwriter moderno, anche se Richard Russell – collaboratore fidato e boss dell’etichetta XL – si occupa della produzione e compaiono alcuni ospiti, tra cui Brian Eno e Bat For Lashes. Damon concilia i dualismi, tira le fila del discorso, adopera la tecnologia che è oggetto di oblique critiche nei testi allo scopo di intrecciare una tela dove prevalgono il minimalismo, la necessità di comunicare e una solida semplicità che è tra i traguardi più difficili da raggiungere. Ed è sempre lui che parla sottovoce per potersi finalmente ascoltare.
Parsimoniosi e calibrati, gli arrangiamenti rappresentano la chiave di accesso a un lavoro in cui per la prima volta – appropriatamente, considerate le premesse e trattandosi del vero esordio in solitaria – l’artefice non asseconda il lato pop che lo ha reso famoso. Everyday Robots libera le tensioni in una bellezza senza soluzione di continuità, in una confessione che cresce calma, ti prende e ti porta via in punta di piedi. A un certo punto scopri di non poter più fare a meno di qualcosa che, con la capacità sublime di anticipare e rivelare tipica del pop, riverbera il nostro “presente pandemico” disseminato di sospensioni, attese e punti interrogativi. Anche se non te ne rendi conto che dopo una prolungata frequentazione, è un balsamo per l’anima. Provare per credere.
Scrivo dal lunedì al venerdì, da quando mi sveglio fino alle cinque del pomeriggio. In questo periodo succedono cose come Everyday Robots.
Se autobiografia deve essere, che sia il più possibile esplicita. Nel gioco di equilibri dipanato da una scaletta impeccabile quanto a impaginazione e scrittura, il brano che intitola il disco apre i giochi e la linea narrativa campionando un monologo del comico Lord Buckley sull’esploratore spagnolo Cabeza de Vaca, nel quale le parole «Non sapevano dove stessero andando ma sapevano dov’erano!» possono rimandare all’umanità che naviga a vista come al musicista, che conosce il luogo di partenza di un disco ma non può stabilirne con certezza le derive e gli approdi. La melodia appoggia echi di Robert Wyatt su un sinuoso, circolare trip hop fragrante di archi e pianoforte, stabilendo il mood generale ribadito dalla sbilenca eppure ipnotica Hostiles e dal soul bianco al silicio di Lonely Press Play.
Calato il tris d’assi, l’afropop Mr. Tembo illumina atmosfere per il resto consacrate a un tepore da mezza stagione, malinconico ma non opprimente e quindi perfetto per umori che tendono al meditabondo. Se le brevi Parakeet e Seven High assolvono la funzione di interludi aggiornando con un pizzico di ghostalgia l’elettronica pastorale di Another Green World, il compassato elettro-jazz dalle venature classicheggianti The Selfish Giant ragiona sull’amore che svanisce triturato dalla consuetudine e l’ombrosa giostrina You and Me spiattella rimandi alla passata tossicodipendenza di Albarn, immaginando un Syd Barrett del Duemila che ciondola fra ambienti dall’etereo all’atonale e ritorno.
Su cadenze pigre, l’ordito cristallino e la sofferta eleganza di Hollow Ponds dipanano una serie di flash esistenziali dalla torrida estate del ’76, ovvero la scintilla che ha scatenato l’intera analisi. Cerchio chiuso come meglio non si potrebbe, poiché nel suo pulsare da Massive Attack dolenti sta il cuore di un capolavoro che da qui in poi si rasserena.
Affrontati i fantasmi e superata la prova, l’uomo attende la luce in fondo al tunnel mentre i post-folk Photographs (You Are Taking Now) e The History of a Cheating Heart stendono tappeti in bilico tra Leonard Cohen e Momus al commiato Heavy Seas of Love, un gospel urbano che diresti sfuggito alla penna di Stephin Merritt. Testimoni il nume tutelare Brian e il coro della chiesa di Leytonstone che ascoltava da ragazzino, l’adulto viene battezzato da un inno di gioiosa speranza. Sul sipario che si apre senza strappi, scrosciano gli applausi.