Musica perfetta. Un minimalismo che travolge e ipnotizza. Un teatro di opposti sintetizzati in una magica e irripetibile conciliazione tra muscoli e cervello, istinto e ragione, primitivismo e avanguardia. What else?
Alla fine dello scorso maggio ha preso il via una serie di pubblicazioni dal vivo ufficiali dei Can. Il primo (doppio e ottimo) dispaccio Live In Stuttgart 1975 riferisce di un ensemble che stava per iniziare il declino ma era ancora in grado di stupire ed esaltare. L’operazione di recupero degli archivi è dunque meritevole non solo per i collezionisti o dal punto di vista documentaristico, ma anche perché – con le cinquanta candeline spente dal Capolavoro Tago Mago – ci spinge a ragionare su chi gode dello status di classico perennemente moderno.
L’estrema attualità del “quartetto più uno” di Colonia non ha bisogno di pretesti. È una condizione che prescinde dalle epoche, dai mutamenti del gusto e dello sguardo critico. Impermeabili a tutto, i Can non sono mai stati rétro, né mai lo saranno. Tra altre cose, la loro forza sta anche nel ricavare armonia da contrasti che alla fine non risultano più tali e in un’anima camaleontica però riconoscibile. Caratteristiche del genio, come saper mettere ordine nel caos.
Se preferite, conferire forme inedite a un magma cerebrale e fisico in cui economia di mezzi, abilità esecutiva e la giusta dose di spontaneità garantiscono orizzonti vastissimi e densità di idee. In un prezioso minimalismo che obbliga a focalizzare ogni minimo dettaglio, la musica dei Can scorre con calore, naturalezza e libera disciplina. Come per i Kraftwerk e il Miles Davis della svolta elettrica, è un essere vivente che muta il (oltre che nel) tempo. A parte chiamando in causa il talento, puoi cercare di spiegarlo partendo da un dichiarato rifiuto delle regole canoniche di un rock che gli artefici reputavano arte contemporanea.
Tutti meno uno, comunque sulla medesima lunghezza d’onda, agli inizi erano trentenni-e-qualcosa pronti a giocarsi delle chances con una faccenda “per giovani” verso la quale nutrivano curiosità e soprattutto rispetto: volevano espanderne il lessico mantenendo un valore popolare e per questo la loro rivoluzione è stata autentica. In continuo movimento, erano “post” nel senso di oltre. Quattro teste pensanti, quattro retroterra che si integravano in una benefica tensione che fondeva avanguardia, jazz, rock e black. Una meraviglia il risultato, per il quale sono state escogitate pittoresche definizioni. Tutte calzanti, nessuna definitiva.
Pochi altri filoni sono strettamente legati a un preciso contesto storico e sociale come il krautrock, e nessun’altra corrente europea ha influenzato l’asse anglofona in pari misura. Basti pensare all’ascendente esercitato su new wave, post-rock, elettronica danzabile e sperimentale da un linguaggio concepito in una nazione che stava ricostruendo sé e la propria identità culturale partendo da una completa tabula rasa.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la Germania Occidentale è un calderone in cui lo sperimentalismo di Karlheinz Stockhausen – a chiudere uno di tanti cerchi, le sue lezioni americane saranno seguite da membri di Grateful Dead e Jefferson Airplane – si intreccia al progresso industriale e tecnologico e a sonorità d’importazione (rock’n’roll, beat, jazz, blues) che in seguito verranno orgogliosamente reinterpretate. Intanto, circondato dall’alone conservatore dell’insopportabile schlager musik, un popolo fa i conti come può con l’orrida macchia del nazismo.
Da rovine non solo metaforiche, le nuove generazioni costruiscono così altre forme di bellezza, inconfondibilmente autoctone e allo stesso tempo esportabili. Come per il cinema, la letteratura e le arti figurative, dalla coscienza della propria condizione inventano stili multiformi e fuori dagli schemi. Nel contesto generale del krautrock, che attinge da fonti sino a quel momento periferiche quando non del tutto estranee alla tradizione, più che il cosmo i Can mappano luoghi dove l’Europa sfuma nel Continente Nero attraverso i sotterranei d’America. Anche se immaginari, sono luoghi possibili.
La rampa di lancio è infatti il senso di avventura (in un certo senso pop, per la capacità di comunicare) che appartiene a Jimi Hendrix, Beatles, Frank Zappa, Sly Stone, Velvet Underground. Di quello indagano i legami con avanguardia e jazz, in strutture ardite però mai astruse, poggiate su robusti agganci fra ritmo e melodia, memori di James Brown e Bo Diddley. Per questo, anche quando si porgeranno più vaporose e lussureggianti, le atmosfere suggeriranno una giungla della mente abitata da macchine in gran parte umane. È rock con una pulsazione che non ha nulla di roll, ma è lo stesso irresistibile perché è il nostro qui e adesso.
I Can sono un a sé ovunque, non solo a Colonia. Da quelle parti Irmin Schmidt ha un’avviata carriera di pianista, compositore e direttore d’orchestra che conosce i classici e ha studiato con Stockhausen. Nel ‘66 visita New York e il viaggio – parole sue – lo “corrompe”: frequenta Steve Reich, La Monte Young, Terry Riley e il mondo di Andy Warhol. Probabilmente ammira Lou Reed e soci in azione e quando torna è colmo di entusiasmo verso ciò che reputa musica sul serio nuova. Da dietro le tastiere, nel fatidico Sessantotto convoca il flautista statunitense David C. Johnson (se ne andrà prestissimo) e dirotta al basso il compagno di studi Holger Czukay, in precedenza tecnico radiotelevisivo, chitarrista jazz e insegnante di musica in Svizzera.
In un organico paritario che smembra l’idea consolidata di rock gang, Czukay porta il giovanissimo Michael Karoli, anello di congiunzione con il blues che reinventa la sei corde in una pittura di spatolate, acquerelli e tonalità. Fa la cosa giusta al momento giusto al pari degli altri, incluso Jaki Liebezeit. Amico di Irmin, è il batterista per eccellenza: fantasioso e potente, in una trance che spalanca universi disegna linee che apparterranno alla drum’n’bass e al funk-wave terzomondista. Con un background che da Chet Baker arriva al free, sta cercando un’efficace monotonia che induca estasi e che dalla materialità colpisca i sensi. Ecco le fondamenta e la chiave di volta del groove finissimo profumato d’Africa ribadito al microfono da Malcom Mooney, scultore newyorkese di colore che traina il collettivo con piglio esagitato.
Assecondando il caso, esordiscono al Nörvenich, un castello nei pressi di Colonia, nell’ambito di una mostra. Senza aver mai provato, per dirla alla loro maniera “compongono seduta stante” e funziona benissimo. Dopo una parentesi come Inner Space, optano per la ragione sociale sulla quale circolano tante ipotesi, le più plausibili un omaggio a Warhol tramite l’iconografica lattina (in inglese, “can”) e una parola turca che può significare “vita”, “anima”, “cuore”, “spirito”. Se così fosse, sarebbe uno splendido modo di rimarcare l’umanità che poi metteranno sempre al centro delle cose.
Nel frattempo si ingraziano Christoph Vohwinkel, mecenate che ha affittato il maniero per farne un centro artistico e li ospita. Sfruttando il riverbero naturale del salone, Czukay rispolvera le conoscenze di elettrotecnica e dispone tre microfoni in punti strategici. Senza mixer e calibrando i preamplificatori, documenta jam fluviali su un registratore a due tracce e poi edita i nastri con un certosino taglia e cuci. Benché rustico, uno studio costantemente a disposizione per quegli anni rappresenta un autentico privilegio. I Can ne faranno eccellente uso.
Siccome la necessità è la madre dell’invenzione, adottano un differente approccio alla scrittura, affrontata come il canovaccio sul quale in concerto si dialoga per ore tra brani che sbocciano lì per lì e un incessante “remix” del repertorio. Interagendo con l’imprevedibilità, lo spazio circostante e i suoni, i Can colgono in pieno il momento e il flusso di coscienze. Successivamente, danno forma all’istinto con una tecnica di montaggio simile a quella cinematografica conducendo un passo oltre la lezione di Phil Spector.
Nel rock il concetto è innovativo tanto quanto la “composizione spontanea” che impedisce di scadere nel solipsismo e, con energia e chiarezza della visione, costituisce il collante di materiali che nessuna etichetta ha il coraggio di pubblicare. Quanto affiorerà nell’81 in Delay 1968 vanta il primitivismo e la severità di new wave e dopo-rock, porgendo un’eccitante faccenda che, a grandi linee, salda l’esuberanza atavica della musica nera alle febbri di The Velvet Underground & Nico. Butterfly è fantastica funkadelia grezza, Nineteen Century Man preconizza i Contortions, Thief modifica il DNA degli Animals e Man Named Joe declina garage stridulo alla Captain Beefheart. Se Uphill condensa Sister Ray e i Fall con passo elastico, la filastrocca Little Star of Bethlehem è Syd Barrett che si crede John Cale.
Eppure, tra le stanze del Nörvenich si respira già un’altra aria. Con Rolf Dammers, nel ‘69 Czukay anticipa i fantasmi di Brian Eno e David Byrne intessendo liturgie ambient con voci trovate in dischi di folklore vietnamita. Diversissime le sonorità, Canaxis contiene ipotesi di futuro solide come l’esordio del gruppo. Dopo un’esigua tiratura autoprodotta, Monster Movie viene ristampato dalla Liberty/United Artists, che ha accolto i responsabili dell’ipnosi appiccicosa di Mary, Mary So Contrary, della Outside My Door che ipotizza i Roxy Music (che ancora non esistevano) sperduti in The Piper at the Gates of Dawn e di una Father Cannot Yell che riparte con eleganza da European Son. Giri il disco e i venti minuti di Yoo Doo Right profumano di immortalità, agile tribalismo, fughe per ruvide tangenti.
Se i punti di partenza sono chiari, il risultato travolge e sballotta in uno straniamento che ricorda un universo in piena espansione. Non tutti ne reggono il peso: a dicembre, lo stremato Mooney torna in madrepatria su consiglio di uno psicologo. Le note della ristampa in CD di Monster Movie parlano di un esaurimento nervoso per essere caduto preda di un “Can groove”. Definizione centratissima: con ben altre conseguenze, a chi non è successo?
Per far fronte alla perdita, i Can fanno leva sull’abilità nel cogliere l’attimo. Un pomeriggio primaverile del 1970, fuori da un caffè di Monaco, Holger e Jaki incontrano un musicista di strada giapponese e lo invitano nella band. La sera, Kenji “Damo” Suzuki è dapprima quieto e poi aggredisce il pubblico, che in larga parte se ne va dal locale. Rimangono poche decine di persone, tra cui un plaudente David Niven e in questo scenario surreale prende corpo un’altra identità. Il cantante è anch’egli uno strumento, perciò il nuovo arrivato segna un cambio di rotta con il porsi mistico e sensuale laddove Mooney incarnava la sciamanica follia del ritmo.
Battendo un ferro discretamente caldo, esce un 33 giri con brani composti per alcuni film. Il lapalissiano Soundtracks sistema una cerniera sulle due fasi tramite il commiato di Malcom nello spettrale post-blues Soul Desert e l’esordio di Suzuki che latineggia sghembo in Don’t Turn the Light on, Leave Me Alone. Inevitabilmente frammentario, l’album scintilla nella mesmerica onnipotenza di una Mother Sky che mostra la via a Loop e Spacemen 3, nel dolce rapimento di She Brings the Rain e nella malinconica Tango Whiskyman.
Il “difficile” terzo album è la summa del Can-pensiero. Su saggia istigazione della moglie di Schmidt divenuta manager della formazione, Tago Mago vede la luce in formato doppio nell’epoca in cui il gesto possiede un senso definitivo. Oltre a essere l’investitura a semidio di Jaki Liebezeit, inscena un gioco di luci, ombre e sfumature che porta all’estremo suoni e (poli)ritmi per elevarli in configurazioni inaudite. Chiara in tal senso la metafora della copertina, dove con bambinesca finezza è ritratto un cervello aperto e idee spiraliformi che ne fuoriescono.
Come per il titolo, suggerito da un’isoletta balearica visitata dall’occultista Aleister Crowley, avverti un clima di mistero e di rivelazioni che sai già dire profonde, durature. Piuttosto ingannevole l’incipit, siccome poco alla volta Paperhouse sposta rimasugli di acid rock dentro un incubo con la grazia nervosa dei Television e i punti interrogativi dei Sonic Youth maturi. Le rispondono i nervi scoperti di una Mushroom che impasta taglienti oscurità metropolitane e stranito R&B sfociando nella circolare e fascinosa policromia di Oh Yeah. L’astrattismo flette i muscoli, preparando lo sbarco di alieni da altre dimensioni.
Halleluwah ancheggia su un funky krauto e, scossa da febbri motoriche e sciabolate psichedeliche, trascolora in avveniristico (bad) trip hop. Aumgn potrebbe avere come sottotitolo “Revolution Number Ten”: ingoiate le droghe sbagliate ma giuste, corre a perdifiato verso un demonio con le fattezze di – rieccolo! – Crowley. Peking O è una visita guidata al subconscio che prende a calci una rudimentale drum machine mentre Herr Stockhausen dirige i Throbbing Gristle in una solenne messa nera. A riportarci a casa provvede Bring Me Coffee or Tea, la luce del mattino che filtra in un tesissimo folk-(post)rock. Increduli e felicemente annichiliti, applaudiamo. Niente sarà lo stesso, dopo. Neppure i Can.
Fondamentale, Hildegard Schmidt. Sull’onda dell’entusiasmo suscitato oltremanica da Tago Mago, fa in modo che i suoi protetti tengano tour adeguatamente retribuiti e assicura un accordo per la sigla di uno sceneggiato televisivo. A 45 giri, le curve stranite dell’irresistibile giostra elettro-rock Spoon divengono una hit nazionale portando finalmente un po’ di denaro nelle casse. Trasferito lo studio – battezzato Inner Space – in un vecchio cinema fuori città, si lavora con rilassatezza e il nuovo habitat influenza l’esito. Ammorbidita un poco la batteria, il commercialmente fortunato Ege Bamyasi modifica la combinazione tra voce e strumenti segnalandosi come l’album “pop” dei teutonici.
Va da sé che nell’ottobre ‘72 il vocabolo sia interpretato con la destrezza che a metà corsa piazza il baccanale dadaista Soup, saluta con il successone Spoon e altrove dipana orientalismi e blackness corretti a candeggina, miele e vetriolo. Eloquenti il nerbo crepuscolare di Vitamin C, una tortuosa Pinch che inventa i P.I.L., l’assorto dondolare di Sing Swan Song, una One More Night squadrata però suadente e quel sensazionale anticipo di Happy Mondays che è I’m So Green. Con la ciliegina sulla torta del rimando ai Velvet – in realtà si tratta di una confezione di gombo dell’Egeo, rinvenuta in un negozio turco – l’LP rafforza il plauso della stampa e annovera tifosi disparati come Geoff Barrow, Thurston Moore, Kanye West e Stephen Malkmus.
Gli opposti si integrano sempre, insomma. Adesso, grazie all’evolversi del “gusto medio”, sono perfino accessibili. Lo conferma un annetto più tardi il magnifico Future Days, offrendo una Bel Air terrigna e aeriforme articolata su tre session diverse collegate con inarrivabile maestria, la dinamica tutta sospensioni e guizzi della title track (isolate la linea vocale: unendo i puntini, avrete una dozzina di canzoni dei Sonic Youth) e di una Spray memorizzata dai Tortoise, l’orecchiabilità e la classe supreme di Moonshake.
La sensibilità “sinfonica” e pacificata del lavoro (inciso in estate, al rientro dalle vacanze: si sente) consegna panorami evocativi ma pulsanti che lo renderebbero un addio ideale. Cosa che in un certo senso è, siccome Damo saluta per sposarsi e diventare testimone di Geova. I Fantastici Quattro, però, non si fermano sul tambureggiare indemoniato che in coda a Bel Air prende il volo per l’ignoto.
Portato a compimento un tragitto di continue trasformazioni, a metà Seventies i Can sono consapevoli del proprio ruolo. Le incrinature si mostrano quando acquistano un registratore multitraccia, smettendo di suonare/comporre tutti insieme democraticamente. La ristrettezza di mezzi svanisce e con essa la creatività e la magica armonia: chi fino ad allora schifava gli orpelli soccombe alla sindrome del “bravo musicista” e inizia a farsi reciprocamente le pulci. Inoltre, senza Suzuki viene a mancare l’elemento che bilanci le dinamiche artistiche ed emotive e un sostituto si cerca ma proprio non si trova.
La discesa dall’empireo si risolve in passi più manierati ad eccezione di Soon Over Babaluma, pregevolissimo per la vena “etnosferica” (Karoli rispolvera il violino) di Dizzy Dizzy, un’azzeccata incursione reggae con qualcosa di Sandinista!, la proto-techno brasilera Chain Reaction, la cosmica Quantum Physics, una Splash che preconizza Remain in Light e l’ironico flamenco lounge di Come Sta, La Luna. I “veri” Can muoiono qui. Infine calati nel proprio tempo, svaniscono allorché Irmin e Michael si dividono le sporadiche parti cantate e il cuore del decennio custodisce gli ultimi bagliori.
Passati sotto il libro paga della Harvest, sono accolti nella nobiltà prog pur tenendosi in disparte con contegno e signorilità. Indicativo il palla lunga e jammare di Landed, gradevole ma più persuasivo quando sterza bruscamente nel collage Unfinished, nel mutant-jazz tropicale Red Hot Indians e nell’esotismo sbilenco di Half Past One. In Flow Motion spiccano l’omonimo dub, il mordace successo da discoteca I Want More e l’oscurità battente di Smoke, benché la sensazione sia di geni che si rilassano comodi sugli allori. Nonostante qualche isolato colpo di coda, il krautrock sta tramontando e si sente.
Di conseguenza, il discreto Saw Delight guarda nello specchietto retrovisore con nonchalance mentre Czukay manipola nastri e radio per tamponare l’autoreferenzialità. Vanamente, poiché l’arrivo dai Traffic di Rosko Gee (basso) e Rebop Kwaku Baah (percussioni) sancisce la normalizzazione. In quel periodo, l’unica cosa davvero imperdibile è Unlimited Edition, cornucopia di inediti che spaziano dal ’68 al ’74 in un efficace riassunto di stili che sparge qualità stellare e saggi di umoristica world music “fasulla”. Impietoso il confronto con la piattezza di Out of Reach e dell’LP omonimo, nel 1979 si stacca la spina.
Dopo il rompete le righe è Holger il più sintonizzato su un’attualità che, come i compagni, ha in gran parte contribuito a modellare. Degne di nota le imprese in solitaria e le collaborazioni con David Sylvian e Jah Wobble (da avere Full Circle dell’82, con dentro anche Liebezeit) mentre Schmidt traffica con le colonne sonore, Karoli suonicchia e Suzuki fa il busker su scala mondiale. A partire dal 1989 di un più che dignitoso Rite Time, inciso tre anni prima con il redivivo Mooney, i Can si riuniranno ciclicamente e con discrezione. Provvedono gli anni Novanta a divulgarne l’importanza, da Julian Cope al post-rock passando per una luccicante Peel Session dritta dal periodo aureo.
Immortalità contro umanità, parte prima. Michael Karoli muore nel 2001, sulla soglia del mitologico varco kubrickiano dove l’eredità del gruppo cresce senza sosta, come una sorta di Sehnsucht romantico su una danza di autocontrollo e abbandono. Immortalità contro umanità, parte seconda. Nel 2012 il fenomenale cofanetto The Lost Tapes – ennesima intuizione della signora Schmidt – pesca con mano felicissima nella biblioteca degli inediti. Un lustro più tardi, Jaki e Holger si spengono e oggi Irmin è l’ultimo temporaneo custode di un’arte suprema.
Servisse un ultimo attestato di grandezza, sappiate che nel 1997 il gigante Andrew Weatherall ha preferito sottrarsi all’incombenza di un remix da includere con altri nell’omaggio Sacrilege. A questa musica, diceva, non c’è nulla da aggiungere. Aveva ragione, come sempre. Il modo migliore – anzi: l’unico – per onorare la perfezione è fare tesoro dei messaggi estetici e metodologici che contiene. Torneranno molto utili al momento di partire verso altri mondi, se è vero che «in the distance lies the future».