Il ricordo di un personaggio chiave di una tradizione musicale e culturale capace di trascendere e superare (non certo senza problemi) i suoi stessi costumi e rigidi dogmi. Accanto a lui, una carrellata di altre comparse solo in apparenza minori: chitarristi, toreri, produttori, poeti, gitani – tutti parte del grande carnevale che ruota intorno a Camaròn de la Isla, figura tanto complessa quanto radicata profondamente nel suo essere sempre fedele a se stessa, alla sua anima, e al cuore vero del flamenco.
Ora ti guardano male se dici che non ti piace il flamenco. Dieci anni fa ti guardavano male se dicevi che ti piaceva.
Non sbaglia Antonio Canales, attore e ballerino españolo, a inquadrare con una tagliente disamina cosa oggi significhi parlare del flamenco. E come tutte le mode che coinvolgono improvvisamente il vasto pubblico anche a questa spesso si debba imputare – per natura – un certo impoverimento del soggetto in questione.
Il merito (o l’onta) di tutto di ciò (chissà) è forse solamente da ricercarsi nelle varie tendenze hipster di rito (se vogliamo vederla in maniera cinica) o nell’apertura delle orecchie collettive verso le grandi tradizioni musicali della cosiddetta world music (se vogliamo vederla con occhi più romantici). Fatto sta che, a ogni modo, il fenomeno del flamenco ha iniziato a farsi sentire non solo nelle scuole di ballo più intriganti e progressiste ma anche ai piani alti dell’intellighenzia più prettamente musicofila e culturale.
Va da sé che per un chitarrista classico il nome di Paco de Lucía e Tomatito non saranno certo ignoti, così come gli infiniti palos, i sottogeneri del flamenco (chiedete a un qualunque etnomusicologo per conferma), ma non sono in molti ancora a vedere in questa ritrovata moda quella che è l’anima vera di una tradizione musicale così radicata e così profonda da esercitare il suo fascino più autentico proprio per il suo essere incastonata a fondo nelle sue stesse terminazioni e radici etniche.
Il flamenco è la cultura più importante che abbiamo in Spagna e oserei dire in Europa. È una musica incredibile, ha una grande forza emotiva, un ritmo e un’emozione che pochissimi folklori europei possiedono.
Le parole di Paco de Lucía ci fanno capire la profondità espressiva di un genere che non può esimersi dal riferirsi a chi fa quella musica. Non a caso non sono in pochi a sostenere che il vero flamenco debba restare appannaggio della cultura gitana.
Prima di diventare così spettacolarizzato nelle sue forme canonizzate nell’immaginario comune, il flamenco (che non a caso si traduce con “fenicottero” in lingua spagnola) è una forma di musica e di danza di origine andalusa, nata all’inizio del Settecento, che si snoda su due piani fondamentali. Da un lato il cante, il canto all’apparenza stonato e piagnucolante, dall’altra il baile, la danza che lo accompagna. Il fondamento del flamenco, la sua anima, nasce dunque da un’esigenza di sfogare gioie e (soprattutto) dolori in un linguaggio intimo e privato, aggregante e pur meditativo. La parte musicale è data da un’ulteriore coppia di elementi: il toque, cioè l’espressione della chitarra, e il jaleo, il ritmo (e in particolare il battito della mani – las palmas). Tutti questi elementi, con le loro diversità specifiche, sono in comune a tutti i palos del genere.
Tra le tante influenze che hanno ritoccato il flamenco (araba, ebrea, cristiana) quella che lo ha reso davvero nuovo è stata proprio la cultura zingaresca, portata avanti dai gitanos, gli interpreti zingari, i maggiori padroneggiatori dell’anima aggregante e comunitaria del canto. Inizialmente si cantava il flamenco senza l’accompagnamento della chitarra, anche solamente con il cante, al massimo aiutati dal battito dei piedi sul terreno, ma el cantaor restava certamente la parte preponderante per esprimersi in maniera autentica.
Sono stati i cosiddetti Cafè Cantantes a portare il flamenco nella sua dimensione spettacolarizzata, avvicendandolo alle performance di varietà dei locali notturni spagnoli e facendolo uscire dalla dimensione popolare, casalinga, tanto intima quanto fortemente aggregativa. La commercializzazione, oltre alla diffusione, ha portato ovviamente anche alla cosiddetta decadenza del flamenco (di cui ha parlato anche García Lorca) e fu solo con gli anni Cinquanta/Sessanta del Novecento che la ripresa fortemente ideologica di alcuni canoni lo ha riportato verso un’epoca d’oro. Partendo da Siviglia e da Granada, per arrivare a tutto il resto della Spagna e poi del mondo.
L’aspetto più importante nel flamenco – ancora oggi tramandato fortemente – è sempre e comunque stato l’intensità delle espressioni. Infatti la sua bellezza – per i più rigorosi – non è data dall’estetica, ma dalla forza interpretativa, dalla sincerità espressiva e da quanto chi lo suona ci mette del suo. E senza ombra di dubbio dal suo cantore, la sua figura di riferimento, che deve trasmettere la sua stessa credibilità all’interno della comunità di cui è parte.
Nato a San Fernando (Cadice), nella parte più vicina alle saline (quindi la più povera, secondo la gerarchica urbanizzazione del luogo, ma poeticamente descritte in una canzone come «espejos de sol y sal donde se duermen los barcos»), José Monje Cruz è il penultimo di otto fratelli di una famiglia di zingari. Il padre è un fabbro appassionato di flamenco, la madre – dalla splendida voce – sarà una delle sue prime fonti d’ispirazione. Fin dal piccolo – per la sua magrezza, i capelli biondi e la pelle bianca – viene soprannominato “il gamberone”. “La Isla” è invece quella de León, l’isola su cui sorgono Cádiz e San Fernando, appunto.
Abituato ad ascoltare in casa le melodia dei maestri Manolo Caracol e Antonio Mairena, già a sette anni è spesso invitato in varie osterie e bar per qualche esecuzione di canto, tra cui la mitica Venta de Vargas, luogo di culto per gli aficionados della Baia di Cádiz. «Camarón, un fandanguito, por favor!», frasi così e qualche soldo lasciato sul tavolo: basta poco al piccolo José per godersi un’infanzia felice, insieme al suo amico Rancapino (che, anche lui, non tarderà a farsi un nome). A dodici anni vince il primo premio al concorso di flamenco del Festival di Montilla (Córdoba) e da qui la sua ascesa sarà lenta ma inarrestabile, tanto da fargli pian piano abbandonare le velleità da torero, che lascerà al grande Curro Romero (a cui dedicherà – più avanti – una famosa canzone).
Cantare era molto più facile che fare il torero!
Entrato a far parte dello spettacolo della Torre Bermejas di Madrid, ci resterà per dodici anni – importantissimi per la sua formazione – accompagnato dal grande Paco Cepero. D’altra parte, come amava dire Lola Flores ancora ai tempi della Venta, quel bambino «doveva avere del miele dentro la gola».
Sarà proprio in quegli anni a Madrid che conoscerà anche Bambino e altre grandi star spagnole. Dopo aver partecipato al film Casa Flora (proprio con Lola Flores), esibendosi in un canto (in playback) su una motocicletta, à la James Dean, incontra Paco de Lucía – il quale lo definirà «un uomo che possiede una magia senza confini» – con cui inizierà una delle collaborazioni più note dell’ultima metà di secolo. A seguire, la terza e ultima grande liaison artistica sarà con Tomatito. Il 2 luglio 1992 Camaròn morirà a Badalona (Barcellona) all’età di 41 anni, a causa di un cancro ai polmoni.
E pensare che era stato proprio uno dei grandi idoli di Camarón, Caracol, a dire che un gitano biondo non poteva diventare un vero cantante di flamenco. Caracol che verrà sconfitto, alla Venta, durante una delle battaglie leggendarie del flamenco. Il giovane gamberone, riuscirò a cantare in tonalità con il barré sul settimo tasto della chitarra e la risposta del pubblico presente decreterà che è tempo per un nuovo mito.
Ci aveva visto lungo proprio il grandissimo Antonio Mairena, nel 1963, durante la Feria de Sevilla, sentendolo cantare. In quell’occasione era stato più esplicito di Caracol:
El niño canta muy gitano.
Che Camarón e Paco de Lucía siano vissuti nello stesso momento storico è un miracolo, diceva Juan Verdù, produttore che aiutò entrambi a diffondere il loro genio. Che si siano conosciuti in una sera, suonando insieme fino a notte fonda (Cepero, lo stesso de Lucìa e José Monge Cruz), è già leggenda.
ll loro primo disco, intitolato El Camarón de la Isla con la colaboración especial de Paco de Lucía, dà il via a una vera rivoluzione, pur settandosi ancora sulla forte tradizione. Il tango Detrás del tuyo se va sarà solo il primo dei successi del duo. Già si nota infatti come la commistione tra due figure così radicate nel genere – eppure così fantasiose e genuine – riescano a donare quell’alchemica innovazione che il flamenco necessitava per non morire ammazzato dal progresso.
Stupito prima e costantemente ispirato poi dal compagno, il chitarrista nutrirà e si farà nutrire artisticamente dal cantaor che era già diventato un fenomeno conosciuto e apprezzato da tutti. Camarón sulla mano sinistra aveva tatuata una luna crescente in ricordo delle radici arabe del flamenco, ed è inevitabile – parlando di rivoluzione – tirare in ballo il destino se consideriamo che i due iniziano la loro comune avventura proprio nel 1968. L’alma del cante e quella del toque insieme, unite dall’occhio accorto del padre di Paco, Antonio Sanchez Pecino, che firmerà tutti i primi dischi e imporrà la produzione di almeno un disco l’anno.
Paco ha sempre nutrito una stima profonda per Camarón:
Con lui ho passato gli anni migliori della mia vita. Ho imparato molto cercando di seguire la sua voce, per poi continuare a renderne appieno il pathos quando mi trovavo a suonare da solo. Sono maturato molto in quegli anni, come musicista e come persona.
Un’amicizia così profonda non potrà che partorire capolavori. Sentire Son Tus Ojos Dos Estrellas (1971) è rientrare nei territori sfaccettati dei palos del flamenco. Bulerias, fandangos, peteneras – tutti arroccati dietro la voce sofferta di un cantaor come Camarón e un giovane maestro come Paco de Lucía. Un esempio su tutti? Gitana te quiero:
Gitana, tienes el cabello
Como la pluma del cuervo
Los dientes como la nácar
Y el color verde trigueño
Los dientes como la nácar
Y el color verde trigueño
Poi, a un certo punto, la volontà di Camarón di maggiore indipendenza lo porterà sempre più distante dalla casa di Antonio Sanchez. Si sposerà con la Chispa e troverà un produttore come Pachòn, che gli proporrà di fare un disco completamente fuori dai canoni.
In termini storico-mitici la collaborazione tra i due grandi del flamenco terminerà proprio con l’incisione dell’album più controverso (e noto) di Camarón, nel quale Paco deciderà, forse per non incrinare i rapporti col padre – che a questo punto - dopo nove dischi - diventa una specie di produttore rinnegato – di non aggiungere il proprio tocco. Per tutta la vita, però, sarà grato al suo grande amico José.
Nel 1979, con il solo nome di Camarón pubblica La leyenda del tiempo, quella che sarà un’autentica rivoluzione nel mondo del flamenco, e che gli costerà le critiche di tutta quella comunità che intendeva il genere in senso più fedele, ortodosso. D’altra parte lui stesso aveva anticipato «ci vorrà un po’ di tempo per capirlo», denotando una allo stesso tempo un’onesta consapevolezza e una sicurezza invidiabile, ma che lo status ormai raggiunto comunque giustificava.
Inserendo sonorità proprie del jazz e del rock, il disco è arricchito dagli adattamenti di poesie di Federico García Lorca e partecipazioni di una pletora di artisti come i membri del gruppo rock andaluso Alameda, il chitarrista Raimundo Amador, il percussionista Tito Duarte, il bassista Manolo Rosa, il sitar di Gualberto García degli Smash, i tastieristi Manolo e Rafael Marinelli. Accanto a loro, due altre figure importanti, che hanno contribuito alla scrittura vera e propria del disco: il cantante dei Veneno (il rocker Kiko Veneno), e il guru illuminato Ricardo Pachón, già suo produttore nel 1977.
Se le bulerìas – come Homenaje a Federico, dedicata a García Lorca, il grande poeta assassinato dai franchisti, la cui figura è il centro di gravità di gran parte del disco – restano uno dei momenti più convincenti del disco, sono incredibilmente numerose le diramazioni dei palos espressi dentro l’album: il tango (Tangos de la sultana), la nana (Nana del caballo grande), la rumba (Volando Voy), oltre a una serie di sperimentazioni fusion e quasi progressive che difficilmente un gitano fedelissimo e purosangue del flamenco avrebbe potuto tollerare.
La ricchezza espressiva e le tonalità eclettiche del disco allontaneranno in parte Camarón da quella dimensione solida che aveva raggiunto, ma gli permetteranno di entrare in una dimensione ancora più ampia e per certi versi fortunata, nonostante i grandi dubbi che i puristi avanzeranno all’epoca. «Vuoi diventare una rockstar, come Miguel Bosé?» si sentirà dire. Contro i fantasmi del passato, e proprio prendendosi sulle spalle el cante viejo e anejo, José proseguirà comunque per la sua strada. Mentre la gente riportava il disco dove l’aveva comprato, Camarón ripeteva, con voce pacata e dolce:
Vorrei dire alla gente che ha ascoltato il disco… di riascoltarlo, perché è davvero un buon disco.
I più illuminati, invece, capiscono la visione di Camarón. In particolare colui che diventerà il suo nuovo compagno di toque e amico fraterno: José Fernández Torres, in arte Tomatito, insieme al quale la grande parabola del successo di Camarón raggiungerà il suo apice. Il futuro è alle porte, ed evidentemente, col senno di poi, La leyenda del tiempo, se non la chiave per entrarci, è stato sicuramente la forcina con cui forzarne la serratura.
Una vita senza ombre? Non proprio. Nel 1986 Camarón viene condannato a un anno di reclusione per un incidente automobilistico in cui erano morte due persone. Non sconterà la pena perché incensurato. Interpellato sulla sua passione per i bicchierini, ripeterà spesso:
Il flamenco è notturno, basta ipocrisie!
Qualcun altro insisterà spesso sull’uso di droghe e sulla perdita dell’anima gitana del cantaor, ma José riuscirà sempre a dimostrare una pacatezza e un’umiltà spiazzante in merito. Convincente era dire poco e alla fine della fiera le poche insinuazioni si perderanno nel mare di grandi cose i più diranno di lui. All’epoca sembrava che nulla potesse scalfire l’ascesa del Gamberone.
La gente non ha capito il motivo per cui canto. Ma a me non interessa e continuo per la mia strada.
Ricondurlo dunque, come è stato spesso fatto, alla tragica storia della rockstar andata via anzitempo, sarebbe sicuramente fargli quello che è stato fatto al flamenco generalizzato. La figura romanticizzata di Camarón, le sue dipendenze durante gli anni ‘80, quando l’eroina era la droga preferita a Madrid e in tutto il resto del mondo, i suoi problemi finanziari degli ultimi giorni, sono solo una piccola parte di un’anima pura, dura come un diamante. I suoi riflessi sono molteplici. E forse non è così strano che alcuni, talvolta, brillino più di altri sotto certe angolazioni.
Nel maggio 1987 si esibirà per tre giorni consecutivi nel Cirque d’Hiver di Parigi, in uno dei suoi più grandi successi. Nel 1989 registrerà Soy gitano, il disco più venduto nella storia del flamenco, al quale collaborerà il chitarrista Vicente Amigo.
Un altro concerto entrato nella memoria collettiva è quello a Malaga nel 1990, dove le vecchie bulerias ritornano a essere vero flamenco tradizionale: tornare alle origini, dopo averle superate a tutta velocità, sverniciandole. A Londra, poi, la Royal Philarmonic Orchestra affinerà alcuni arrangiamenti di molti dei suoi pezzi e la figura di Camarón supererà così i confini spagnoli e diventerà internazionale, un mito mundial, «il Mick Jagger del Flamenco», come diranno in molti. Riduttivo, probabilmente è stato molto di più.
Juan Carmona, compagno musicista, non sbagliava affatto dicendo che Camarón era diventato “il re dei Gitani”: come se tutta una comunità specifica, attraverso il suo successo e tramite la sua figura, potesse guadagnarne in termini di dignità e autorevolezza, come se finalmente potesse essere rappresentata in grande. Passare dall’essere una razza disprezzata da tutti quanti ad avere un riconoscimento mondiale nel campo dell’arte, dopotutto, non è cosa di tutti i giorni. E l’orgoglio non può che nutrirsi dello stesso mito che celebra.
Un altro grande torero dell’epoca, Gitano Rubio, dirà di lui, mostrando un francobollo che raffigurava la faccia di José:
Camarón era la nostra divinità. Con lui mi sentivo protetto.
José Manuel Gamboa, uno dei più noti critici di flamenco, sosterrà proprio che la figura di Camarón era a un certo punto assurta a quella di un Dio – un Elvis, diremmo noi. Buffo che lui invece, la cosa che voleva fare, come tutti i veri artisti, altro non era che scansare tutto questo baccano e continuare a far cantare la sua anima, senza il peso di uno status del genere.
Mi ricordo momenti di delirio collettivo, come nel Palacio de los Deportes, quando uscì sul palco e una gitana si fece la pipì addosso urlando “Viva el mio Camarón!”
Alcuni portavano i propri figli malati direttamente da José, come se, toccandoli, avesse potuto curare i loro mali. Trascendere la dimensione umana e diventare un fenomeno soprannaturale: la fortuna e la maledizione delle icone.
Il 12 maggio 1992 viene presentato al pubblico l’ultimo disco di Camarón de la Isla (Potro de rabia y de miel) accompagnato da entrambe le chitarre di riferimento di tutta una vita, Paco de Lucía e Tomatito, quasi come a suggellare un testamento che in molti già conoscevano.
Il peggioramento delle condizioni di salute sembrava già portare a una conclusione inevitabile: il cancro ai polmoni – dovuto al tabagismo – lo ucciderà un mese dopo. Il 2 luglio 1992 muore a Badalona (Barcellona) all’età di 41 anni, avvolto da una bandiera gitana. Al suo funerale assisteranno centomila persone, in uno dei momenti più struggenti della storia del flamenco e della Spagna tutta: il grande cantaor era ormai leggenda a tutti gli effetti.
Nel libretto del disco sopracitato si può leggere:
Perché il leggendario Camarón è molto più che uno dei più grandi cantaores di tutti i tempi. Camarón è mitologia, è un simbolo della concezione dionisiaca dell’esistenza.
Dopo la sua scomparsa le vendite dei dischi vedono un’impennata, escono antologie e articoli di approfondimento che raccontano “le due grandi vite” di Camarón (come le definirà la sua vedova, “la Chispa” Dolores Montoya): quella prima della sua morte, quando José era un artista in crescita, suo marito e padre dei suoi figli, e quella dopo la sua morte, fatta di tutto ciò che Camarón ha lasciato per sempre nella – e soprattutto alla – storia del flamenco.
Nel 2005 arriverà poi il film del regista Jaime Chávarri, semplicemente intitolato Camarón e interpretato da Óscar Jaenada e da Verónica Sánchez. Poi il documentario di Alexis Morante Camarón: Flamenco y Revolution e infine nella docuserie Netflix Camarón Revolution: De la isla al mito. Il tutto per una conclusione agrodolce: la faccenda degli abusi di eroina e cocaina ha perseguitato la sua esistenza, pur lasciando trasparire – al di là delle più facili caratterizzazioni di una vita di eccessi – l’immagine di un uomo onesto, legato profondamente alla sua famiglia e a principi ben lontani dalla mera dissolutezza.
Il flamenco è sempre una vergogna, anche l’amore è una vergogna. In fondo, tutto è un peccato e una gioia.
Camarón de la Isla è stato un simbolo, un riferimento, ed è riuscito a essere riconosciuto come la vera “voce del flamenco” dal cosiddetto grande pubblico, ben al di fuori dei confini dei soli addetti ai lavori, divenendo una vera e propria star mondiale.
Una vita, la sua, fatta di eccessi e abusi, che hanno spesso portato la sua strada a somigliare a quella di un rocker maledetto, ma anche un sentiero solido che ha sempre poggiato le basi su una storia e una cultura profondamente tradizionalisti. Un uomo profondamente idealista e una figura leggendaria, con i fantasmi e i demoni del caso tradotti in vocalizzi e parole scritte con l’anima. Un’alchimia, questa, capace di rappresentare l’istinto principale della tradizione tanto quanto di diventarne l’estremo catalizzatore di sperimentazione.
Se Miles Davis è stata la rockstar del jazz, allora certamente Camarón de la Isla è stata la rockstar del flamenco. E anche se suona solo come un titolo acchiappa-click non importa, perché quando si parla di grandi personaggi l’iperbole è più che giustificata. Che lo si paragoni a Elvis, a John Lennon o altri grandi miti contemporanei è una cosa ormai storicamente accettata. E le stravaganze, probabilmente, sono sempre ciò che rende speciali figure che difficilmente possono restare fissate a un unico pattern rigido. I gitani non sono certo jazzisti, e più diventi famoso più basta un fuoripista per essere facilmente squalificati da una vita in discesa libera. Eppure, con grande enfasi, Camarón dirà sempre: “soy gitano”.
Soy gitano.