Cantava Cyndi Lauper che le ragazze vogliono solo divertirsi. Sarà anche vero, ma alcune non si accontentano, mettono su una band e fanno dischi che dopo trent’anni brillano d’immenso. Sembra una favola e forse lo è: c’erano una volta le Breeders. E ci sono ancora.
Mai fidarsi dei bassisti. O meglio: fidarsi eccome, perché possono rivelarsi il fulcro del gruppo nel quale militano e dimostrare di possedere qualità che si spingono oltre uno strumento che spesso crediamo scelto per pigrizia mentale o in ragione della presenza di più abili chitarristi. Quando non tutte e due le cose. Tanto per non far nomi, pensate al ruolo svolto da Holger Czukay, John Paul Jones e David J. Chiaro il concetto? Ecco: per quanto concerne le quote rosa, caliamo al volo un poker con Tina Weymouth, Kira Roessler, Kim Gordon e quel bel peperino di Kim Deal. E a proposito di quest’ultima: per chi nel 1990 era troppo piccolo o addirittura non era, risulta piuttosto complicato spiegare che rivelazione fu la sua uscita allo scoperto nelle vesti di leader.
In retrospettiva sembra ovvio, ma pochi avrebbero pensato che la tipa tosta con i Ray-Ban a goccia e il sorriso canzonatorio fosse non solo un modello di nuova coolness, ma addirittura una delle teste pensanti dei Pixies. Invece avremmo dovuto riflettere meglio sulle prodezze da autrice, sul suo peso negli impasti vocali, nella dinamica loud/quiet e nelle linee di basso che stavano facendo la storia. Era lampante che una magia così non poteva essere figlia di un unico genio, per quanto abile, tanto meno che Kim stesse recitando da spalla per quel dispotico accentratore di Francis “Black Francis/Frank Black” Thompson. Donne, a volte non vi capiamo. Se potete, perdonateci.
Ciò premesso, l’esordio delle Breeders indicava con chiarezza quanto il gruppo madre affidasse la spinta innovativa a polarità distinte e tuttavia complementari. Una felice schizofrenia imbrigliata a dovere ha permesso ai Pixies di fondere maschile e femminile in qualcosa di superiore alla somma delle parti. In quel suono unico e irripetibile che vanta infiniti tentativi di imitazione e di lì a poco innescherà la rivoluzione (involontaria) condotta da Kurt Cobain, dei bostoniani il fan più intelligente e importante. Con il boom “alternative” a pieno regime, bastava ascoltare la carriera solista di Black per consegnare il ruolo dell’elemento di rottura a chi invece, nello stesso momento, capeggiava un supergruppo e recapitava canzoni favolose. Canzoni di armonia e stortura, di slancio e meditazione. Autentici baci di filo spinato, per dirla con i Jesus and Mary Chain.
Talvolta i progetti paralleli si evolvono fino a sorpassare le band dalle quali hanno origine. I contrasti e le battaglie di ego possono far perdere fiducia, dunque concedersi delle scappatelle consente di ripensare sé e il proprio ruolo, di rigenerarsi. Se poi l’evasione si rivela non più innocente, addio e grazie per i ricordi: significa che è giunta l’ora di volare via dal nido. In tal senso, la vicenda delle Breeders è paradigmatica sin da una nascita curiosamente speculare. Succede che durante un tour europeo in compagnia delle Throwing Muses, Kim faccia comunella con Tanya Donnelly grazie a un idem sentire, poiché entrambe militano in gruppi eccellenti all’ombra di figure dominanti, e sono consapevoli che serva loro un mezzo per incanalare la creatività.
Nemmeno la convivenza con Kristin Hersh è facile, quindi l’idea di una valvola di sfogo comune prende corpo spontaneamente, se non altro per rifiatare e sottrarre dai cassetti brani in cui le ragazze credono ma che nessuno ascolterebbe. La Deal imbraccia la chitarra e allestisce la sezione ritmica attorno a Josephine Wiggs dei britannici Perfect Disaster e a Britt Walford, batterista degli Slint nascosto dietro lo pseudonimo Shannon Doughton, poi ripesca la ragione sociale – un ironico “(al)levatrici” – dalle imprese adolescenziali con la gemella Kelley, tornando a quando cantavano Hank Williams e gli Everly Brothers nei peggiori bar di Dayton, Ohio. Discograficamente restano alla corte di Ivo Watts-Russell, convinto con un semplice demo a stanziare un budget di tutto rispetto e convocare Steve Albini a Edimburgo.
L’esito a 33 giri si intitola Pod e rappresenta l’evento inatteso del 1990, offrendo una dozzina di episodi che lasciano a bocca spalancata per il piglio fratturato però flessibile, il caratteristico gioco di pieni e vuoti e le notevoli doti compositive della Deal, che anticipa di un triennio gli ultimi Nirvana (Glorious), infonde agli Shellac l’umanità di cui sarebbero stati carenti (l’immensa cover della beatlesiana Happiness Is a Warm Gun) e tratteggia catatonie folk (Oh!). Basterebbe eccome, non spiccassero su un programma assai solido anche le movenze sinuose di Fortunately Gone e Only in 3’s e una Iris che si porge da apice insieme angelico e scorticato.
Un paio di calendari e nei negozi arriva Safari, EP con tre autografi speziati e gustosi più una Sad about Us sottratta agli Who. Gli spigoli taglienti emergono dal brano omonimo e il resto evidenzia lineamenti arditi che abbracciano melanconia e distorsione. Gioielli come Do You Love Me Now? e Don’t Call Home, tutt’uno di orecchiabilità e strutture sghembe, annunciano un futuro che non prevede Tanya Donnelly, decisa a varare una cosa sua che battezza Belly.
Nessun problema. Un colpo di telefono e Kelley Deal è della partita. Mentre apprende i rudimenti della sei corde, il cerchio si chiude accogliendo a tamburi e piatti Jim Macpherson, altra vecchia conoscenza di Dayton. Vietato perdere tempo, perché il 1992 prevede l’imperdibile vetrina del tour europeo di spalla ai Nirvana.
Portato a termine l’impegno, un comunicato stampa ufficiale annuncia la fine dei Pixies. Si spiegano anche così il senso di assoluta libertà che pervade Last Splash e una freschezza tuttora sorprendente, benedetta da una mini epopea propulsa da un basso elastico nato per sbaglio e chitarre che, mulinando e raschiando, incorniciano la melodia pigra ma sexy. Con l’inconfondibile attacco e il gioioso «ahhhhhoooo-oooh» registrato in un microfono per armonica, i tre minuti e mezzo di Cannonball incarnano un simbolo degli anni Novanta e una pietra miliare di tutto il rock indipendente. La scorza graffiante che avvolge una stellare polpa pop è a tal punto sensazionale e trascinante che, in un folle periodo in cui ogni impresa pare possibile, centra il secondo posto della graduatoria “Modern Rock” di Billboard.
Un traino perfetto per l’album, che esce in coda alla torrida estate 1993 e tempo dieci mesi raggiunge il platino e il palco del Lollapalooza ’94, dove la band riempie il vuoto lasciato dai Nirvana. Con pieno merito, dato che il disco è spiazzante, multiforme e prodotto dall’esperto Mark Freegard in un misto di perfezionismo, sperimentazione e capacità di cogliere l’attimo. Elementi che si sommano a un talento in divina grazia, solare e vigoroso in una Invisibile Man profumata di shoegaze, nella ripescata Do You Love Me Know? e nella contagiosa Divine Hammer, laddove gli stridori sospesi di Mad Lucas ripensano il romanticismo con la trasversalità di David Lynch e Hag mescola i DNA di Raincoats e Slits.
A bordo di un ottovolante stilistico ed emotivo trovate anche del country trasferito in Irlanda con tanto di violino dell’amica Carrie Bradley (la malinconica rilettura di Drivin’ on 9), surf strapazzato a fin di bene (Flipside) e saggi di baldanza disillusa (Saints). Se la lezione del recente passato è riconsegnata a nuova vita dalle venature esotiche di No Aloha e dalla dolce irruenza di I Just Wanna Get Along, altrove il quartetto ci accompagna in passeggiate lungo il lato inquieto della vita scandite dal minaccioso, corrosivo incipit New Year, da un’eccelsa Roi satura di tensione elettrica ma capace di respirare, dalla S.O.S. che in novanta secondi comprime e accelera I Wanna Be Your Dog e verrà campionata dai Prodigy in Firestarter.
Gli incastri complessi resi con disarmante semplicità, un taglio cubista applicato al suono chitarristico, i ganci immersi nelle dissonanze che ti scopri a fischiettare subito appartengono a Doolittle, nondimeno l’interpretazione giunge da un altro luogo. Dal profondo dell’intesa telepatica e del legame spirituale di gemelle che armonizzano gli opposti (pop e rumore, ira e tenerezza, tensione e melodia) come solo loro sanno. Sempre quel filo invisibile eppure robusto affianca un pizzico di linearità alla natura “collagista” della scrittura e illividisce l’esecuzione. Il paradosso confluisce in una perfezione orgogliosamente e autenticamente alternativa che sarebbe cosa buona e giusta riportare in auge. Altri tempi, però, quelli. E altra classe.
Il successo è un animale che bisogna cavalcare con nervi saldi e destrezza, ma il problema è che lo scopri solo stando in sella. Il clamore inaspettato e una serie di responsabilità che cozzano contro la mentalità DIY scatenano una crisi, ma ciò che per altri meno fortunati è stato pura tragedia, in questo caso finisce nei trafiletti di cronaca nera. Nel ’94 Kelley viene arrestata per possesso di droga e spedita a disintossicarsi nel freddo Minnesota. Durante la lunga pausa, Josephine prende casa a New York e suonicchia in giro mentre Kim si rifugia nella città natale.
In pochi mesi accumula materiale a sufficienza per un album e freme dalla voglia di renderlo pubblico. Siccome la scena locale pullula di gente sulla giusta lunghezza d’onda, con MacPherson e due carneadi apparecchia gli Amps: nel 1995, Pacer ritempra l’umore nell’accogliente alveo della provincia riverniciando echi Sixties, power-pop in bassa fedeltà, new wave rumorista e strizzate d’occhio al marchio di fabbrica. Sebbene non imperdibile, segna una vittoria sulle avversità e si racconta in ogni caso superiore a Go to the Sugar Altar e Boom! Boom! Boom! delle Kelley Deal 6000.
Non è facile rinunciare a un passato di grandezza, specie se il ricordo è ancora fresco. La caparbietà ha la meglio: le Breeders rinascono come affare privato di una capobanda che nel resto del decennio arranca pur riprendendo a calcare i palchi con la sorella, la quale nel frattempo ha mollato la scimmia. Infine riesce ad allestire un’altra line-up, tuttavia nel 2002 Title Tk spiega che l’ispirazione è in coma vigile nonostante la presenza di Albini. Trascorsi altri sei anni tra concerti e il ritorno dei Pixies, in Mountain Battles la penna è opaca e l’incisività latita. Che sia già ora della pensione?
Per ritrovare la bussola bisogna guardarsi indietro con spirito critico. Nel 2013 le Deal convocano Josephine Wiggs e Jim Macpherson per una riproposizione dal vivo di Last Splash, legata all’edizione di lusso che ne sancisce in via definitiva la condizione di capolavoro. Il pericolo latente è quello di ogni reunion, ovvero che la faccenda si risolva in un nostalgico “come eravamo”. Non accade. Basta con la ricerca di relative e modeste novità, basta con il grigio mestiere: Kim volta pagina, perché ha compreso che classicità non significa necessariamente ristagno. Recuperato l’entusiasmo e il piacere di suonare, nel 2018 All Nerve è programmaticamente colmo da un’urgenza finalmente ritrovata.
Gli ingredienti restano i soliti, eppure la mano che li impasta è motivata e vigorosa come non capitava da un quarto di secolo. Immersi nel tanto rumore per nulla delle giovani generazioni, le Breeders sono un patrimonio prezioso poiché mostrano in che misura lo spirito e le forme legate al prefisso indie siano elementi fondanti del lessico rock. Sono qualcosa di vivo che, lontano dal reducismo e dalle accademie, può essere adult oriented con passione, dignità ed eleganza. Non è poco.
Bentornate, Kim e Kelley. Vi amiamo anche adesso e, sì, vi ameremo per sempre.