Un cuore meccanico che pompa petrolio fin dove il sangue non sa più arrivare.
Yoann Lemoine teoricamente fa il videomaker, di mestiere. Chiedete a Katy Perry, Taylor Swift e Lana Del Rey se cercate delle referenze al riguardo. O forse no. Non lo sa nemmeno lui, cosa fa di mestiere. Perché ne fa troppi. E tutti bene. Deve essere (anche) per questo che ci ha messo sette anni a partorire un nuovo disco. Nel frattempo è stato consulente audiovisivo per Nicolas Ghesquière di Louis Vuitton, si è dato alla danza con JR per uno spettacolo del New York City Ballet e alle colonne sonore per il figlio di Alfonso Cuarón.
Nel frattempo, soprattutto, è successa la qualunque: la realtà attorno a noi è cambiata e Woodkid si è adattato di conseguenza. Senza mettere da parte il gusto per l’enfasi e la sontuosità, ha alzato il piede dall’acceleratore, dilatando le atmosfere e scandendone i tempi cupi con suoni metallici e rasoiate industriali, per finire – come sempre – a rendere il tutto facilmente digeribile grazie a un antidolorifico efficacissimo: la sua voce, affascinante, soul e precisa come non mai.
Goliath è un ritorno in grande stile, spettacolare ed epico come c’era da aspettarsi, eppure allo stesso tempo intimo e introspettivo. Lascia senza fiato e con gli occhi commossi, mentre ti graffia dall’interno, e su entrambi i livelli ti mostra quello che deve con chiarezza sconcertante.
Perché Yoann Lemoine fa il videomaker, di mestiere. E allora anche qui l’imponenza della componente cinematica resta un fatto assodato. Coesiva, maestosa e intelligente, si traduce in un’immersione a occhi aperti nelle polveri nere di quella tomba a cielo aperto che sono le miniere di carbone di Ostrava (Repubblica Ceca), per una riflessione non solo estetica sulla contrapposizione – e la sovrapposizione – tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Sulla consapevolezza di aver creato dei mostri e la responsabilità – individuale e collettiva – di trovare il modo di sconfiggerli. Ammesso che non sia già troppo tardi.