Per comodità chiamiamolo post-soul. Ma è molto di più.
Probabilmente The Cycle potrebbe essere davvero l’album dell’anno quanto a genio e creatività (in)contaminata. Caratteristiche che trascendono l’ambito della black e – come è sempre accaduto e sempre accadrà – non nascono da zero, ma sono figlie di un profondo senso della contemporaneità sociale, politica e artistica, della conoscenza della storia, di una visione d’avanguardia.
Se serve una definizione, post-soul può valere qualcosa. Magari nel senso in cui già erano “post” Massive Attack e Specials, paragoni centrati anche dal punto di vista stilistico e attitudinale.
Perché il tono militante che prende posizione evita i comizi però pure le mezze misure, accusando e denunciando l’America minuscola che non piace a nessuno nell’anno peggiore della sua storia. Poi travasa tutto quel legittimo vetriolo in una fusione di soul e jazz, di trip hop e Africa, di ottoni ed elettronica. Ne derivano brani cupi e riflessivi, anche se mai freddi – soprattutto qui sta il loro segreto – né privi di una certa gioia speranzosa. Come attraversare il tunnel sapendo che troverai la luce, ecco.
È proprio quello che accade in questa gemma sfolgorante stile e anima: funk obliquo venato di hip hop, è caldo, sfuggente e nuovo a ogni ascolto. Come un resto di disco che vanta i crismi del capolavoro assoluto.