Da erede più credibile di Bob Dylan a ultima rock star globale rimasta.
Nel novembre del 1971, l’allora sconosciuto Bruce Springsteen si reca negli studi del suo futuro primo manager Mike Appel e gli suona una lunga canzone acustica che parla di ragazzini con grandi amplificatori e vampiri dell’alta società. È un pezzo sicuramente influenzato dal menestrello di Duluth, l’idolo del ragazzo del New Jersey.
Passano gli anni e nel 1974, quando la promessa del rock ‘n’ roll sta registrando quello che diventerà uno dei suoi capolavori (Born to Run, pubblicato l’anno seguente), prova in studio proprio quella traccia che suonò in anteprima ad Appel. La canzone viene scartata dalla tracklist finale del disco, ma ricomparirà in qualche setlist del tour acustico del 2005 in supporto a Devils & Dust, per poi tornare nell’ombra per altri quindici anni circa.
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Nel novembre del 2019, ventotto anni dopo averla scritta, Bruce riunisce la leggendaria E Street Band nel suo ranch adibito a studio. Tra le prove e qualche whiskey, ricordi dei compagni del passato e un presente ancora tutto da scrivere, il Boss ripesca dal cilindro – come per magia – quella canzone. Chiede ai componenti della formazione di suonarla “alla E Street Band”, cambiandole pertanto totalmente vestito rispetto alla sua versione originale.
Quel brano si chiama Song for Orphans ed è una delle migliori dieci canzoni incise da Bruce Springsteen in quasi cinquant’anni di carriera. E considerando le 71 primavere compiute da qualche mese, non è affatto poco.