Una vita difficile, ma sempre a testa alta.
In qualche tortuosa maniera Bill Fay è riuscito nell’impresa non facile di cucirsi addosso la malasorte.
A lungo patrimonio di pochi, nel nuovo millennio un pugno di fan intanto divenuti artisti di rango come David Tibet, Jim O’Rourke, Marc Almond e Jeff Tweedy lo hanno riportato sotto i riflettori. La sua idea ombrosa e progressista di folk rock si è allora rivelata attualissima, così come la sua discografia di alto profilo benché scarna: suo malgrado ovviamente, visto che nei primi anni Settanta era rimasto privo di un contratto discografico pur continuando a comporre e incidere. Meno male. E meno male che, in là con l’età, può assaporare un po’ di gloria.
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Fiero e determinato, ci ricorda il mezzo secolo dagli esordi con un disco significativo che dona nuove forme a materiali rimasti nei cassetti. Intitolandolo “rami infiniti”, Bill inoltre sottolinea come la tradizione e il folk cambino restando se stessi. L’uomo sarebbe da applaudire anche solo per il gesto, non fosse l’esito emozionante, soprattutto in ragione di fogge essenziali, di un tono raccolto e di strumenti minimali nel raro abbellimento.
Perché ogni elemento concorre al succo della questione: a canzoni preziose come questa, che avrebbe potuto comporre un giovane Tom Waits.