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U2: Love Is All We Have Left
Rospo, sputa il Bono!

Sul ponte sventola bandiera bianca…

Nel pezzo che apre l’album, e per di più al quarantacinquesimo secondo – che nel mondo del pop è uno degli istanti-chiave per la canzone: è in quella zona che bisogna introdurre dei suoni decisivi per convincere a non skippare i milioni di ascoltatori senza faccia sul pianeta – la voce di Bono, una delle ultime grandi voci del vecchio rock, incontra la voce autotune di Bono, che come tutte le voci autotune fa uno schifo violento. Ed è così che una canzone veramente bella è deturpata a forza da un latrato che, a orecchie piene di pattume, comunica accattivante modernità.

Chissà se l’espediente gli è stato suggerita da Andy Barlow (Lamb), uno dei produttori di Songs Of Experience: in tutto, nove. Non siamo ancora ai dodici, tredici delle vere popstar supercool, ma è chiaramente un passo in quella direzione da parte di una band che era abituata in tutt’altro modo.

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Di fatto è difficile non considerarlo una specie di pubblico annuncio, magari non traumatico come Dylan con la chitarra elettrica nel 1965, ma forse, in scala, simbolico. Certo, gli U2 non sono estranei al confronto con la contemporaneità né con i suoni mainstream: gli anni ‘90, culminati in un album intitolato Pop, sono un’indicazione eloquente della loro disponibilità in proposito. Ma il caramelloso miagolio artificiale che scioglie le generazioni più giovani e tendenzialmente rappuse è un’indicazione dolente della perdurante, forse insanabile crisi di valori dei quattro Dubliners, anime divise tra la nostalgia del rock e “il miracolo di Johnny Ramone”, da un lato, e la paura di essere estromessi dalle playlist globali, dall’altro.

E fosse l’unica lacerazione in corso: ce ne sono altre, come quella tra il sentirsi passionali benefattori del mondo ed essere disincantati investitori nelle operazioni finanziarie più smaliziate. O quella tra l’essere sempre meno graditi nelle isole britanniche – sia nella loro Irlanda, sia nelle classifiche del Regno Unito – e pertanto alla ricerca di simpatie nelle loro roccaforti tradizionali (vedi il video pateticamente newyorchese del primo singolo, o la corposa campagna promozionale italiana per il nuovo album).

Ma forse c’è anche un problema più semplice: una gran voglia di dire delle cose, corollario della propria missione di grande rock band planetaria, ma non sapere più cosa diavolo dire. E alla fine è anche per questo che Love Is All We Have Left – stavolta per il titolo, non per i suoni, e certamente non per il testo che non va oltre un senso di commiserazione indeterminata – sa di proclama. E un pochino, di resa. Forse non solo degli U2, ma del rock’n’roll tutto. Va beh, è andata così.

U2 

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