La calda musica di Duke Garwood è la stessa che gela le orecchie.
Esiste, in un mondo sul perenne orlo del collasso, qualcosa di più fragile della musica di Duke Garwood? Questa sorta di folk/blues votato alla sconfitta – sia perché fuori tempo massimo, sia perché continua esposizione emotiva di debolezza – e che sembra avere gli occhi della preda a terra mentre il cacciatore si ricorda di quando da bambino aveva ancora pietà.
Blue è picco psicofisico di abbandono, intessuto in cori femminili, cantato quasi svagato, arpeggi e batteria che non se la sentono di disturbare troppo pur tenendo le fila del discorso.
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La musica di Garwood – e Blue in questo è dimostrazione perfetta – è al crocevia tra lande inglesi piovose, trafitte da venti che ti spingono a chiuderti a casa, e deserti californiani che trasfigurano all’esterno ciò che uno sente dentro di sé. Solitudine e, allo stesso tempo, ricerca di una salvezza.