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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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L'importanza di chiamarsi Bob Dylan

E perché riconoscerla fa bene al cuore, allo stomaco e all'anima.

Come parlare ancora una volta dell’uomo di cui tutti prima o poi hanno parlato? Nell’unico modo possibile, con amore. Amore per chi, con aria sorniona e indifferente, si è piantato con naturalezza in mezzo alla storia del Novecento traducendola in musica, facendo da ponte fra il folk e il rock, fra il mondo ancestrale delle storie e dei sogni e quello postmoderno, catturando melodie che erano nell’aria da secoli per sviluppare il proprio universo di simboli e immagini che attraversano il tempo senza subire danni, e che parlano a ogni essere umano di questi strange times. Signore e signori, Robert Allen Zimmerman: l’uomo dai mille nomi, famoso però con uno e uno solo.

Wasn't looking for any special assistance

Elston Gunn, Blind Boy Grunt, Lucky Wilbury/Boo Wilbury, Elmer Johnson, Sergei Petrov, Jack Frost, Jack Fate, Willow Scarlet, Robert Milkwood Thomas, Tedham Porterhouse. Se questo elenco vi dice poco, sappiate che sono tutti nomi riconducibili a una sola persona fisica, che peraltro se li è dati da sola. Salvo poi piantarsi nella storia – saldamente, come il paletto di una tenda da campo – con uno fuori da questo elenco, anche quello autocreato: Bob Dylan, dettato da una infatuazione per la poesia di Dylan Thomas.

Al che si è subito adeguato, diventando più tenebroso.

Ciò ci dice due cose. La prima è che se volessimo tradurre la persona in oggetto in una serie di dati ed elenchi di dati, avremmo molte difficoltà. Nel romanzo Dance dance dance di Haruki Murakami, il protagonista dice di non poter parlare di sé perché non si conosce abbastanza bene: «risposta impossibile causa insufficienza dati», una frase che ricorre più volte nella storia. Robert Allen Zimmerman, nato Zushe Ben Avraham, presenta il problema opposto: di dati ce ne sono tanti da riempire oceani, e una schiera di persone si è impegnata in abbondanza per riempirli. Non solo: li ha analizzati, rivoltati, sventrati, raccolti, dispersi, mangiati, digeriti, vomitati, ci ha fatto delle mousse e dei simpatici soufflés, ci ha arredato case e – soprattutto – biblioteche.

Nasci con il nome sbagliato, i genitori sbagliati. Voglio dire, succede. Per cui, ti chiami come vuoi chiamarti. Questa è la terra della libertà. (Bob Dylan)

L’altra cosa è che a questa persona piace darsi nomi, e quindi crearsi da solo la propria identità, forgiandola fin nei minimi dettagli. Motivo per cui (come del resto nel libro di Murakami) i dati sono comunque insufficienti a prescindere da quanti ne abbiamo, perché si tengono ben lontani dal nucleo dell’essere umano che descrivono. Persino il dato più enorme e recente, che li riassume un po’ tutti – il Nobel per la Letteratura del 2016, primo assegnato a un musicista – non si avvicina lontanamente a restituire l’essenza-Dylan. Come potrebbe? Non lo hanno fatto decenni di saggi, monografie, biografie, antologie di testi, storiche, discussioni critico-musicali e persino filosofiche e teologiche. L’unico modo per fruire del messaggio puro portato da questo essere umano è quello più semplice: esporsi direttamente alla potenza delle sue radiazioni. Ma dal momento che ammettendo questo l’articolo finirebbe qua e mi precluderei ogni possibilità di scrivere di qualcosa che amo, l’unica è tentare di trovare una chiave, che avrà inevitabilmente molto di personale.

E tanto per proseguire con la letteratura, e con Murakami (stavolta in La fine del mondo e il paese delle meraviglie):

– Bob Dylan, si capisce subito che è lui.
– Perché suona l’armonica peggio di Stevie Wonder?
[…]
– No, il fatto è che ha una voce inconfondibile. È come un bambino alla finestra che sta a guardare la pioggia fuori.

To dance beneath the diamond sky with one hand waving free

Impossibile quindi raccogliere in un paragrafo l’importanza di un tale megalite artistico: Dylan si è messo di prepotenza fra il prima e il dopo. A lui sono riconosciute la paternità del folk-rock e della psichedelia, che ha reinventato e rimescolato infinite volte. Al blues ha dato un altro volto, tutto bianco (anche se Robert Johnson occhieggia dalla copertina di Bringing It All Back Home, e dopotutto «nobody can sing the blues like Blind Willie McTell»), ma in netta opposizione alle evoluzioni southern e al country più patinato. Ha portato a una nuova generazione la voce dei beat, traducendo in musica messaggi a lui arrivati da Ginsberg, Kerouac, Faulkner, ma pure Fitzgerald, Bukowski, Melville, e addirittura Chaucer, Shakespeare e la Bibbia. E ovviamente ha generato una serie di dischi ascoltati e chiacchierati lungo i decenni, e che lo saranno ancora per un bel po’: dal primo, fortissimo impatto di The Freewheelin’, passando per l’ineguagliata e allucinata trilogia di Bringing it All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde, la riscoperta della luce e della speranza in John Wesley Harding, la maturità e l’amarezza di Blood on the Tracks e Desire, e così via inanellando parole e declamandole con forza fino a ieri, e a oggi.

Tutta roba che sappiamo. Bobby Zimmerman è stato al centro della storia, anticipandola e riflettendone le ombre, trovandosi sempre nel posto giusto all’ora esatta, e con le parole migliori.

E ti pare poco?

Per lui è stata solo una serie di sogni, snocciolata in scioltezza e senza una direzione precisa, surfando rilassatamente su un’onda lunga, mentre beveva Martini guardando l’alba. È pur vero che in molte occasioni – la maggior parte – il processo ha richiesto sofferenza e tormento, com’è normale che sia, ma l’impressione generale è che Dylan ci abbia semplicemente camminato sopra nel giusto tempo, aspettando che facesse buio e seguendo una visione sempre improvvisa e quasi, anzi certamente magica. Come se non potesse fare altro. Ed è questo che esprime con ogni suo gesto.

Aprite gli ombrelli.

What did you see, my blue-eyed son

Chi vede nella musica folk britannica e celtica e nel blues i due combustibili di gran parte della roba che ascoltiamo difficilmente può permettersi di ignorare la figurina arrogante e riccioluta che – anche qui – si staglia proprio in mezzo, al centro di un chiasma che dalla parte del dopoguerra si allarga a ventaglio prendendo quasi tutta la musica, giù fino al rap (c’è addirittura chi ne vede le radici in pezzi come Subterranean Homesick Blues e It’s Alright Ma, I’m Only Bleeding).

Yo, bro.

Dylan è un ponte maestoso fra le Child Ballads e il rock: dalle prime – e da tutto un bacino di musica che risale fino al XV secolo – ha attinto, soprattutto all’inizio, un mucchio enorme di richiami, formule, stilemi, melodie, porzioni intere di lyrics. Il secondo lo ha rivisto e riadattato alla propria missione di bardo cinico del tempo moderno, vedendoci e tirandone fuori delle potenzialità espressive che altri hanno lasciato agitarsi sotto una superficie appena scalfita.

Il fatto, riguardo al rock ‘n’ roll, è che per me non era abbastanza. C’erano frasi di grande presa e ritmiche pulsanti… ma le canzoni non avevano sostanza, non riflettevano la vita in modo realistico. Quando mi sono avvicinato al folk, era qualcosa con più anima. Le canzoni erano piene di disperazione, tristezza, trionfo, fede nel sovrannaturale, sentimenti molto più profondi. (Bob Dylan)

È un processo che avviene per sottrazione. Il folk di Dylan – anche prima della famosa, scandalosa svolta elettrica – è scarno, ghiacciato, duro e d’impatto come il rock. Il suo rock è pieno di storie e di significati, come è sempre stato il folk. Citando un bellissimo film in cui Dylan fra l’altro appare:

Se non è mai stata nuova, e non invecchia mai, è una canzone folk. (Llewyn Davis)

A tutto questo aggiungiamo una verve da bardo, da court jester e da fool dei tarocchi, un intricatissimo universo simbolico e simbolista, surreale e mitologico come a volte spietatamente realistico, un respiro apocalittico e profetico che attinge – in piena sintonia con il moderno e con il postmoderno – dal sacro e dalla cultura alta e li mescola con il profano e con l’immaginario pop, una lucidità rara nel guardare il circostante e una capacità meravigliosa nell’assemblare i versi – una penna che veramente vola. Shakerare il tutto, e servire – rigorosamente – freddo.

Tutto questo e molto altro, signore e signori.

Come gather round people wherever you roam

Il primo, potentissimo scoppio della dylanite è stato ovviamente attraverso la sua versione della canzone di protesta. Che ovviamente esisteva già da parecchio, e il folk ne era già stato il complemento ideale. Risalendo fino a Joe Hill, musicista operaio di inizio secolo, e passando per Woodie Guthrie e Pete Seeger, anche Dylan aveva i suoi numi tutelari, e riconosceva dei pionieri in quel che stava provando a fare. Ma, come ammesso da chi qualcosa ne sa:

La maggior parte delle prime canzoni di protesta degli anni Sessanta non era granché. Non potevo cantarle, non c’era bisogno di cantarle, erano una cantilena. Non avevano alcuna bellezza o complessità. (Joan Baez)

Il giovane Zimmerman lega invece questi inni rivolti solo al momento presente a melodie e formule arcaiche, riprendendole o citandole, ottenendo qualcosa che è urgente e immortale al tempo stesso. E se alcune – come la spesso dimenticata e bellissima The Lonesome Death of Hattie Carroll – sono solo una forma più raffinata di cronaca, Gates of Eden e Chimes of Freedom vagano nel reame del sogno e della visione, portandosi dietro un bagaglio di simboli e infinite sfumature, anticipando la sempre più delirante e ginsberghiana accozzaglia di immagini delle canzoni più psichedeliche, efficacissime nel descrivere la morte progressiva dell’American dream e nel restituire lo stato sempre più cinico e sfiduciato dell’autore stesso (che, comunque, aveva un potere enorme e forse non del tutto consapevole). Per esempio, A Hard Rain’s A-Gonna Fall, che – anche se innegabilmente densa di richiami biblico-cabalistici e ispirata all’invocazione di Lord Randal – è una finestra spalancata sul mondo in bilico della Guerra Fredda ed è stata collegata pure alla crisi missilistica cubana. Oppure la maestosa Hurricane, che sposterà addirittura l’opinione pubblica, favorendo la scarcerazione di Rubin Carter, leggendario pugile nero accusato ingiustamente di omicidio.

La musica folk era tutto quello di cui avevo bisogno. Il problema era che non ce n’era abbastanza. (Bob Dylan)

Il valore di Dylan per la storia, non solo della musica, è limpido e ben documentato. Ma dovremmo fidarci? Non sono poche le persone che lo mettono in dubbio: un cantante Nobel per la letteratura, nel 2021, ci stupisce ancora. E nessuno, poi, che pensi al povero Philip Roth (o, per quel che vale, ai bambini). C’è pure chi, non potendo attaccare la dimensione narrativa di Tangled up in Blue, Visions of Johanna o Desolation Row, manifesta idiosincrasie verso la voce e il modo di cantare. Quante volte avete sentito, anche da musicisti, la fatidica invocazione rituale: «sì, vabbè, allora facesse il poeta»?

Seriously, man?

People are crazy and times are strange

Un’altra cosa iniziata da Bob Dylan – e di cui in Italia abbiamo sentito fortissime le conseguenze, nel bene e nel male – è questa storia del cantautore. Figura ambigua, né poeta né musicista, che secondo il nostro buon De André era anche una sorta di alibi per non esporsi nell’uno o nell’altro campo. Che l’importanza fanatica – e di conseguenza le responsabilità intellettuali, e a volte persino politiche – che abbiamo scaricato sui nostri Guccini, De Gregori e compagnia abbia generato un fastidio di ritorno già nello stesso momento in cui il fenomeno nasceva è evidente. Se poi nel tempo abbiamo progressivamente svuotato di quel senso là il ruolo della canzone, è abbastanza automatico che da una parte ci si rinchiuda in una nicchia di venerazione nostalgica del passato, e dall’altra l’epoca dell’opinione espressa a tutti costi produca anche mostri come “Dylan è sopravvalutato”.

«I used to care, but things have changed».

Sull’aggettivo di cui sopra si potrebbe scrivere un pezzo a parte (o, in una società utopica, istituire punizioni corporali per chi ne fa abuso esprimendo pareri estetici), e parlando di cantautorato c’è tutto un discorso di proporzione musica-testo che andrebbe studiato, anche questo a parte (fra l’altro, è una tesi enormemente superficiale quella che vorrebbe i cantautori tutti sbilanciati sul testo e prevalentemente amusicali). Ma non è questo il momento, e il punto è un altro: perché Dylan non arriva? O meglio, perché arriva?

Or else your hearts must have the courage for the changing of the guards

Se da una parte la sostanza musicale di Dylan è abbastanza più acclarata rispetto agli italiani (forse per il contesto diverso in cui è nato come fenomeno artistico), dall’altra è vero che dieci minuti di strofe declamate con voce nasale e penetrante, senza ritornello e con intermezzi di armonica che entrano direttamente nel cervello possono non risultare sempre digeribili. Se ci si pensa, uno dei cantanti più famosi di tutti i tempi non è per niente un cantante come ce lo immaginiamo: non respira bene, non ha una grande emissione, non usa i risonatori giusti e a volte – orrore – urla dentro al microfono. Ai provini di The Voice verrebbe buttato fuori a calci in culo senza nemmeno pensarci. Il paradosso però è che la voce di Dylan è perfetta.

Perché in quel timbro severo e sgraziato (volutamente, quando lo è) vivono una bellezza e una potenza difficili da ignorare, e vivono proprio grazie al fatto che sono parole in musica e sulla musica. Sarebbe l’ennesima impresa vana e impossibile spiegare qui che chiamare Dylan bardo non sia peregrino quanto in altri casi, come la poesia nasca cantata e in che misura i secoli e il tempo presente si abbraccino felicemente nella sua voce – quindi l’unica scintilla di cui possiamo accendere questo scritto è squisitamente personale.

Anche se, voglio dire...

In una chiacchierata proprio su questo, qualcuno mi ha detto che la forza di Dylan è connessa al curioso fenomeno di arrivare molto prima di essere capito. Nonostante la gigantesca complessità dei versi e dei rimandi che contengono, l’impatto con la coscienza avviene a prescindere e immediatamente, e in qualche modo il messaggio è già contenuto nella sensazione. Bob Dylan parla una lingua meravigliosa nell’unico modo possibile, ed è il migliore a fare quella cosa lì. A sentire lui, non sarebbe nemmeno merito suo: è stato scelto per farlo.

Ora posso guardare indietro e vedere che ho scritto quelle canzoni “nello spirito”, mi spiego? Come Desolation Row. […] Non esiste alcun modo logico per giungere a scrivere un testo come quello. Non so come ci sono arrivato… ero solo un tramite. (Bob Dylan)

Del resto, c’è una canzone – piena come mai di immagini e segni da decifrare, e allo stesso tempo catchy – che, sebbene non sia fra le più famose, è una di quelle di cui in qualche modo si avverte l’aura di grandezza: come se spostasse l’aria, e lo spazio non fosse più lo stesso dopo che quelle vibrazioni l’hanno attraversato, ma contenesse una luce nuova. Appartiene a un periodo già tardo, maturo, e si chiama Changing of the Guards.

Changing of the Guards ha mille anni. Woody Guthrie diceva che lui coglieva le canzoni dall’aria. Ciò vuol dire che erano già lì, e che lui vi si era sintonizzato. Changing of the Guards potrebbe essere appunto una canzone che era lì da sempre, che volteggiava nella nebbia, e un giorno mi ci sono sintonizzato. (Bob Dylan)

Bob Dylan che cerca di sintonizzarsi – con tutto l'entusiasmo e la vitalità che la situazione può concedere – sulle note di We Are the World.

Just thinking of a series of dreams

A questo punto, se il viaggio è andato bene, dovremmo esserci acclimatati nella grande ragnatela che è il mondo di quest’uomo, e dovremmo aver respirato quella polvere d’oro che vaga dappertutto nell’atmosfera in quel posto magnifico e crepuscolare. Iniziamo a capire che non stiamo leggendo i pensieri di un poeta morto perché ci hanno detto di farlo a scuola, e viceversa stiamo godendo come una ragazzina degli anni ‘50 che ha appena scoperto il rock ‘n’ roll. Solo, a un livello più sottile, raffinato, che richiede cure come una pianta.

Vieni con me nel mio magico mondo!

Chiudendo il cerchio, c’è un’altra traccia molto speciale nella discografia dylaniana, inspiegabilmente esclusa da Oh Mercy, e che ha dovuto aspettare il 1989 per vedere la luce – frase che in effetti si adatta bene a una canzone in cui si ha la sensazione di annaspare, circondati da sequenze luminose e suoni perturbanti e ossessivi. Series of Dreams è un ottimo riassunto di Bob Dylan (anche perché è lui che lo scrive di sé stesso), della vita dritta come una freccia di chi in qualche misterioso modo sapeva dall’inizio della storia come questa sarebbe finita. Non con la razionalità, ma in un modo più profondo e intuitivo – una profezia, una visione, un sogno.

Dreams where the umbrella is folded
And into the path you’re hurled
And the cards are no good that you’re holding
Unless they’re from another world

E mentre l’inquadratura si allontana e la canzone – che in realtà non inizia e non finisce mai – comincia a sfumare, lentamente viene sostituita da un’altra, nata molto prima (perché il tempo non esiste, e la storia può essere cambiata): un messaggio a chi non avesse ancora aperto le orecchie a sufficienza per accogliere la buona nuova. Il vecchio ragazzo bardo ci saluta come solo lui sa fare, probabilmente con la stessa espressione scocciata e un po’ sorniona di sempre, ormai pienamente conscio di chi è diventato.

«But if the arrow is straight / and the point is slick / It can pierce through the dust / No matter how thick / So I'll make my stand / and remain as I am / And bid farewell / And not give a damn».

Bob Dylan 

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