Nell’arco di cinque anni, un’adolescente americana ha cambiato il modo di fare pop music. E l’ha fatto da socia di un’azienda vincente: la sua.
Quel che più colpisce di Billie Eilish è – banalmente – la sua bellezza. Una bellezza resa perfetta da un certo ordine nei lineamenti. Occhi color ghiaccio che ti attraversano, un sorriso da mozzare il fiato, un viso su cui l’armonia dei tratti se la gioca con i moti dello spirito. È una bellezza stremata, che porta con sé noia, indolenza e sensualità. Quel tipo di giovinezza che ci si trascina come un fardello pesantissimo.
Di contro, c’è un’altra cosa che sorpende di lei: è una pagliaccia. È una bambina sguaiata e – come avrebbero detto i nonni di una volta – scomposta, con quella giusta dose di stupidéra consona alla sua età: dotata di un umorismo sottile, ossessiva/compulsiva su quel che le piace, capricciosa quanto basta. Eppure la lucidità e la sensatezza sono quelle di un’adulta. E poi, le proporzioni del suo successo – riassumibili anche solo con quei cinque Grammy Award vinti nel 2020 – vanno di pari passo con il numero strabiliante di stream. Tutto con solo un album all’attivo.
E tutto così in fretta.
Billie Eilish – vero nome Pirate Baird O’Connell – nasce il 18 dicembre a Highland Park, Los Angeles. È un strano posto, Highland Park, ex enclave di artisti che la gentrificazione ha trasformato in area residenziale. Si trova lungo la Interstate 110, a poche miglia dal centro di Los Angeles e di tutti i quartieri nel nord-est di L.A. è senz’altro quello che si è trasformato più rapidamente. Tra una taqueria e un bistrot, tra un viale alberato e una pista ciclabile, fiorisce la devastazione delle baby gang. Billie Eilish qui c’è nata e cresciuta, e ancora ci vive. Con mamma, papà, il fratello Finneas, un cane, un gatto e altri animali.
Highland Park è il luogo in cui sua madre, l’attrice, produttrice e compositrice Maggie Baird, decide di trasferirsi all’inizio degli anni Zero, con il marito, Patrick O’Connell, anche lui musicista. Non era il caso di crescere due figli a Hollywood: meglio un fazzoletto di California un po’ più tranquillo. Per modo di dire.
Maggie e Patrick decidono che i loro ragazzi non andranno a scuola: praticheranno l’homeschooling, l’insegnamento domiciliare. Vogliono che i loro figli crescano liberi da orari e lezioni prestabilite, e che coltivino i loro talenti in totale libertà. E di talenti da coltivare ce ne sono parecchi. Per agevolare questo processo, i genitori scelgono di ricavare la loro stanza da letto nel soggiorno, dove campeggiano anche due pianoforti, lasciando ai figli una stanza ciascuno. La stanza di Finneas, fratello di Billie, sarà ben più di una stanza.
Parlare di Billie Eilish senza tirare in ballo Finneas O’Connell, quattro anni più grande di lei, sarebbe come parlare di un bolide della Formula 1 senza far caso agli pneumatici. A sua volta produttore, musicista e cantautore, Finneas ha una grossa fetta di responsabilità nel successo di Billie.
Come lei, anche lui prende le prime lezioni di musica da sua madre, che gli regala il suo primo software di produzione audio. Poi, nel 2014, fonda la sua rock band, gli Slightlys e pubblica singoli da solista, facendo un tour sold out nel 2019. In parallelo, porta avanti l’attività di attore (è comparso in diverse puntate della sitcom Modern Family).
Il sodalizio con sua sorella nasce spontaneamente, nel senso che lui è il primo a riconoscerne il talento e la voce. Billie ricorda spesso un giorno del 2015 in cui lui le disse, un po’ scherzando e un po’ no: «Farò di te la più grande popstar del mondo».
La stanza di Finneas è a tutti gli effetti uno studio di registrazione. Da qui ha preso vita ogni singolo pezzo di musica che Billie abbia cantato. Qui è stato concepito anche il primo, multiplatino album When We All Fall Asleep, Where Do We Go? pubblicato nel 2019, e che ha svoltato davvero le sorti di entrambi.
Billie comincia prestissimo a concepirsi come visual artist: non può separare ciò che ascolta da ciò che vede. Proiettandosi in un futuro instagrammatico, si filma ovunque sia, e posta i filmati in rete, così che quelli diventano tanti piccoli vine, spaccati di una quotidianità da adolescente spensierata in un contesto familiare privilegiato – laddove “privilegiato” non si riferisce necessariamente a una condizione economica, ma alla solidità delle relazioni.
La prima canzone che impara a suonare da sola, a sei anni, accompagnandosi con l’ukulele, è I Will dei Beatles. Quella che presenta al primo talent scolastico è Happiness Is a Warm Gun, sempre dei Beatles.
Coltiva la sua passione per la danza allenandosi in palestra ogni giorno, anche se poi dovrà smettere a causa di un problema ai tendini. Sua madre la porta comunque spesso a Broadway. Ed è proprio qui, mentre assiste al musical Matilda, che un giorno capisce di volere un palcoscenico nella sua vita. Ma per qualche motivo, crede che sia troppo tardi, ed esce da quello spettacolo in lacrime.
In una puntata di Carpool Karaoke con James Corden del 2019, Billie apre le porte di quella stanza in cui lei e il fratello fanno musica. È un bugigattolo di pochi metri quadri con un letto a una piazza e mezza. La postazione studio con un pianoforte, una pianola e un computer. Niente isolamento acustico. In quest’occasione Billie ribadisce un concetto che emerge molto spesso dalle sue interviste: la sua famiglia è parte integrante del suo lavoro – la segue ovunque, anche quando va in tour. Fa parte della famiglia anche una tarantola blu scuro – sì, quella che esce dalla sua bocca nel video di You Should See Me in a Crown.
Ocean Eyes è una delle prime canzoni che Billie e Finneas scrivono insieme, la prima a suscitare un qualche interesse da parte del pubblico e del music business. Nasce come zuccherosa e adolescenziale canzone d’amore. Un pezzo in apparenza semplice, che però, grazie alla produzione sopraffina, diventa una pregiata perla pop. Per rendere l’idea: ci sono voluti sette giorni solo per mettere insieme le armonie vocali.
Esce dapprima su Soundcloud, nel 2015, e poi viene pubblicata come singolo nel novembre del 2016 dalla Interscope. Raggiungerà la posizione 87 della Billboard Hot 100 e sarà certificata platino, totalizzando un miliardo di stream. Il bello è che, in origine, il pezzo era stato composto da Finneas per la sua band, ma poi lui aveva deciso di cederla a sua sorella per un numero di danza.
Il mondo di riferimento dei due è fatto di nomi poco noti, un pop femminile di estrazione nordica – come quello di Aurora, e Låpsley – ma anche un po’ meno nordica (e ben più nota), come Lana del Rey. Anche se, per usare le parole di Finneas:
Non reggiamo neanche la candela a Lana dal punto di vista della produzione.
Nonostante il successo di Ocean Eyes (triplo disco di platino, dicevamo, ovvero – senza stare a fare troppi conti – un bel po’ di copie), l’industria discografica inizialmente non riserva un gran trattamento a Billie. Gli executive la trovano oscura, triste e anche un filo psicotica. Un canovaccio già visto: sta per arrivare la bomba che farà cambiare idea a tutti. Nessuno può immaginare che quella ragazzina pestifera, da lì a poco se la giocherà nello stesso campionato di Ariana Grande, Taylor Swift, Lady Gaga, Dua Lipa, Doja Cat – insomma, tutta gente abituata a stazionare nella Billboard 100 per anni.
Non esiste una guida su come affrontare il successo, ma sono cresciuta osservando le celebrity nei loro momenti peggiori. Tra i loro scandali e certi comportamenti che hanno fatto infuriare la gente. Così adesso so cosa non fare. (Billie Eilish – intervista per CBC, 2016)
Per produrre When We All Fall Asleep, Where Do We Go?, l’album d’esordio di Billie, lei e Finneas impiegano un anno e mezzo. Senza fretta, senza ansia, nel rassicurante isolamento della loro stanzetta. La tracklist è scritta a pennarello su una parete, con i titoli che vengono spuntati man mano che si completano. Bad Guy, il supersingolo che – a detta di molti – ha definito la pop music del decennio scorso, mostra un notevole cambiamento nella formula: Billie non è più una potenziale teen star che alimenta il lato morbido dell’adolescenza. Ha accumulato un bagaglio di conoscenza e consapevolezza che la rendono parte integrante della produzione. Ha ascoltato di tutto, ha osservato i colleghi. Sa cosa vuole.
Bad Guy è uno scoppiettante, cadenzato uptempo che pare composto da un rumorista. Un accuratissimo mosaico di piccoli effetti e minuscoli suoni, ma con un’infinità di strati vocali. Il basso gonfio su cui si sviluppa è nientemeno che il subwoofer domestico che, vibrando su una mensola, regalava un effetto che a lei sembrava irresistibile e caotico. «Se è caotico nella mia stanza, lo sarà anche in cuffia», pensava.
Video e pezzo vanno ovviamente di pari passo: la canzone è un inno al non volersi assoggettare alla volontà di un maschio gradasso. Il video pure.
I signori dell'industria discografica vogliono sapere ogni singolo dettaglio di come When We All Fall Asleep, Where Do We Go? è arrivato a dominare il panorama dello streaming (Bad Guy, la miglior performance su Spotify, chiude l'anno a un miliardo di play). E tutti quanti al di fuori della Generation Z vogliono delle spiegazioni sul suo abbigliamento baggy, sulla sua ossessione per The Office, o su come fare i push up del surreale video di Bad Guy. (Billboard – novembre 2019)
La rivista Vanity Fair US ha condotto un esperimento originale su Billie Eilish: le ha fatto la stessa video-intervista nello stesso giorno – 18 ottobre – dal 2017 al 2020, con le stesse identiche domande. Quel che emerge, innanzitutto, è la rapidità con cui Billie è diventata parte integrante del mondo che idolatrava – come sia passata, in breve tempo, da fan oltranzista dei suoi idoli a oggetto stesso d’idolatria.
Per riportare il fenomeno col metro di Instagram, in quattro anni è passata da 250 mila a più di 70 milioni di follower. Al momento, quasi quattro volte quelli di Chiara Ferragni.
La sua formula è chiara: si identifica con il suo target. I suoi concerti sono, per usare le sue stesse parole, «un unico grande karaoke», un rito d’iniziazione in cui orde di ragazzini e ragazzine (soprattutto ragazzine) cantano ogni sillaba, ogni sospiro, ogni “Dah” che dio manda in terra. E lei conversa molto con loro, prendendosi anche una certa confidenza.
Dai, posate un attimo quei telefoni, che se muoio sul palco voi continuate a filmare.
Per sua stessa ammissione, Billie si comporta sul palco esattamente come si comportava nel pit dei concerti altrui, da fan irriducibile, quando scavalcava la cancellata che separava la GA (General Admission) dall’area vip per pogare sotto il palco. Da qui deriva lo speciale rapporto che ha con il suo pubblico: tra lei e loro la linea di demarcazione è molto, molto sottile.
Come tante teen stars, Billie ha passato gran parte del suo tempo a osservare e imitare, per poi non essere uguale a nessuno. Se proprio si volesse azzardare un paragone, andando a rovistare nei cassetti della memoria, forse verrebbe in mente Anouk, la rockettara olandese che non voleva essere la moglie di nessuno. Oppure Avril Lavigne, vera teen sensation di inizio anni Zero (chi non si ricorda Sk8er Boy?). La sorpresa è che Billie nutre davvero il culto di Avril Lavigne. E lo conferma questa foto postata su IG nel giorno della festa del suo compleanno.
In un’intervista del 2019 rilasciata a Vogue America, Billie ha parlato della sua depressione, condizione che ha scandito gli anni della sua adolescenza, e che lei riconduce prevalentemente alla mancanza di accettazione del suo corpo.
Quello che temeva di più era di trovarsi a incarnare lo stereotipo classico di ogni teen star: «avere un tracollo emotivo e radersi i capelli» (con un evidente riferimento a Britney Spears – anche in quel caso avevamo un esempio di gestione familiare ma non è andata benissimo) per poi, a un certo punto, essere sopraffatta dalla volontà di farla finita.
Non ho mai pensato che sarei arrivata a diciotto anni. (Billie Eilish – Vogue America, 2019)
Ma se le chiedi se ha un lato oscuro, lei dice di no. Dice che ride di qualsiasi cosa e che le scoccia anche un po’ sentirsi dire che è oscura. Poi però vedi certi video, come quello di Everything I Wanted, e ti vien da pensare che il suo immaginario dark si è accentuato rispetto ai primi anni di successo, così come da chiederti se questo lato oscuro non sia, d’altro canto, nutrimento prezioso per certe liriche e certi suoni.
Volevo essere una modella. Lo volevo con tutta me stessa, ma ero bassa e chiatta. Mi sono sviluppata prestissimo: avevo le tette a nove anni, le mestruazioni a undici. Il mio corpo correva più veloce della mia testa. (Billie Eilish – Vanity Fair US, 2018)
È questo il punto: la carriera di Billie Eilish è appena cominciata, si può dire. Ma in cinque anni è riuscita laddove in pochi sono riusciti: diventare un’influenza (oltre che influencer) per le nuove generazioni. Come Ariana Grande, come Lady Gaga, o – per citare qualche esempio più vicino alle sue corde – FKA Twigs, SZA, Robyn.
Altro grande traguardo è quello di aver già messo a segno un pezzo per la colonna sonora della saga di 007 (No Time to Die composto con l’orchestra di Hans Zimmer) – l’ultima a riuscirci era stata Adele, ma dopo diversi anni di folgorante successo.
E poi i numeri parlano chiaro: a inizio 2021, la Global 200 di Billboard, quella che raccoglie i dati di vendita fisici e stream in tutto il mondo, vede ben piazzati ben tre singoli: Everything I Wanted, Lovely (che canta con Khalid) e Therefore I Am. Conteggiando tutte le certificazioni tra album e singoli, arriviamo a 57,5 milioni di stream, a cavallo tra Ariana Grande (40 milioni) e Sam Smith (37 milioni). Il tutto completato da quei cinque Grammy Award conquistati nel 2020.
Eppure, ancor più dei numeri, conta il fatto che una ragazzina americana scavezzacollo (per la legge americana non ancora maggiorenne) abbia ottenuto tutto questo tra le quattro mura di casa sua, gestendo ogni aspetto della sua carriera, ed essendo un tutt’uno col suo pubblico. Soprattutto, che abbia rivoluzionato i parametri del pop, intingendolo nel fluo.
Proprio come ha fatto con la sua ricrescita.