New Music

Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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A proposito del 1970

C'è un anno che quest'anno compie 50 anni: sembra lontano, ma non lo è per niente!

Una short story celebrativa del cinquantennale di un anno intero. Un anno di quelli che è impossibile dimenticare. Cosa succedeva mezzo secolo fa, musicalmente parlando e non solo? Signori, ecco a voi il Millenovecentosettanta. Cosa c’era in giro e che aria tirava quando veniva alla luce l’oscura prima doppietta targata Sabba Nero, mentre gli Scarafaggi di Liverpool si chiamavano fuori dai giochi (a modo loro)? L’Isola di Wight e i live che hanno segnato la storia del rock, l’infiammarsi di nuove leggende regine e lo spegnersi di altre stelle.

(Hi)storytelling

Le commemorazioni – dovute, sentite o istituzionali – sono un’usanza all’ordine del giorno nell’ambito della comunicazione e del giornalismo. Grandi dischi compiono gli anni e bisogna spegnere le candeline il giorno giusto (o al massimo in anticipo – se proprio devi sbagliare momento, sempre meglio farlo prima degli altri). Pena: il fuori tempo massimo, ovvero il peggio nemico del clickbait.

Eppure siamo umani, in fin dei conti, e le storie e le leggende ci sono sempre piaciute, anche se oggi abbiamo convertito questa passione in una specie di lavoro e la vendiamo come dote professionale chiamandola “skill di storytelling”. Ma è semplicemente un modo di omaggiare il corso delle cose: grandi eroi si spengono, grandi storie finiscono, altre luci si illuminano e ci fanno ricordare che sono “passati cinquant’anni da quella volta che…”.

Eccoci qua, quindi – in barba agli algoritmi, alle memories suggerite dei social e ai programmi di sintassi automatica per hashtag – di nuovo a fare i conti con il Passato, quello che con la “P” maiuscola. Quello che, appunto, non è passato invano.

Mala tempora currunt

Non è semplice categorizzare questo splendido cinquantenne, perché puoi ricordarlo per mille motivi: da un pomposo “decennio della Grande Musica” a un drammatico “lo sdoganamento dei pantaloni a zampa d’elefante”. Quello che è sicuro, è che è stato l’emblema dell’inizio e della fine di molti capitoli importanti della storia sociale mondiale. Inizio e fine, dunque. Gli ingredienti principali di qualunque racconto.

Partiamo dunque da alcune considerazioni sintomatiche per ciò che stava avvenendo – o iniziava ad avvenire – nel 1970, sempre ricordando quello che al riguardo ci insegnano le parole di Kurt Vonnegut – uno dei più importanti scrittori americani del cosiddetto postmoderno – che, cavalcando l’onda dei suoi capolavori (vedi Mattatoio n. 5), intervistato proprio in quegli anni, dice:

Nulla finisce mai realmente. Questa è la parte orribile dell’essere nel business della short story: essere un grande esperto di finali. Nulla finisce per davvero nella vita vera. Per esempio: «Millicent alla fine capisce». Non è vero: nessuno capisce, alla fine. (Kurt Vonnegut)

Senza addentrarci in lezioni di storia, ma cercando di non tralasciare il fatto che i grandi eventi circondano necessariamente le terminazioni di ogni discorso artistico, non si può non fare riferimento ad alcuni eventi che mobilitarono l’attenzione mediatica e sociale di quel periodo. Mentre le sonde e le navi aerospaziali mandano altri equipaggi sulla Luna e nei dintorni del sistema solare, la guerra africana fa capitolare il Biafra, ulteriormente impoverendo altre regioni, e continuano imperterriti i massacri nei punti nevralgici della geopolitica, come intorno all’area del Giordano, nel Medio Oriente. Un esempio su tutti: il massacro Bahr el-Baqar in cui F4 israeliani bombardano una scuola egiziana, pochi giorni prima che si festeggi il primo Earth Day, ricorrenza nata da un movimento universitario e poi passata sotto l’egida delle Nazioni Unite per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra. Nel frattempo, gli Stati Uniti invadono la Cambogia minacciando di ampliare la portata della guerra in Vietnam, un manipolo di donne scorre sulla 5th Avenue di New York incitando all’uguaglianza dei sessi e Salvator Allende diventa presidente del Cile.

Grandi contraddizioni, grandi opposti, grandi squilibri, di cui si potrebbe naturalmente discutere in ogni epoca e in ogni anno. Ma il ‘70 ha una componente che – più che in altri casi – ne rappresenta il catalizzatore: la musica. Ovvero la forma d’arte più adatta ad accogliere questa naturale commistione di candele che finiscono la cera e benzina che inizia a spargersi su nuovi focolai. Come dicevamo, inizio e fine. E se si aggiunge un pizzico di leggendario e di mitico, i cinquant’anni che stiamo andando a festeggiare suonano ancora più epici.

Let it be… ma anche no

Ebbene sì. Si chiude una porta, si apre un portone. Morto un papa, se ne fa un altro. La vecchia saggezza popolare ci viene sempre in aiuto. Il 3 gennaio 1970, infatti, Paul, George e Ringo effettuano l’ultima seduta di registrazione a nome Beatles, lì, negli Abbey Road Studios. I Me Mine, una canzone di Harrison, aggiunta last minute all’album. Quello che poi diventerà – dietro la mano sapiente di Phil SpectorLet It Be, e dopo il quale altri non ce ne saranno.

Quattro riquadri ormai non più comunicanti.

Il disco esce esattamente un mese dopo l’intervista in cui McCartney dice qualcosa come «Ok, I’m out», riprendendo quello che Lennon aveva già anticipato privatamente ai compagni. L’intervista risale al 9 Aprile 1970, proprio quando – leggenda vuole – ascoltò cosa Phil Spector (appoggiato in segreto da Harrison e Lennon) avesse fatto della sua The Long and Winding Road. Il cosiddetto “wall of sound” non era di certo una tecnica prediletta del buon Paul. Da lì in poi: cause legali e carriere soliste.

Questa la versione che aveva in testa lui, invece.

Sarebbe bastato questo, a farlo passare alla storia, il 1970. La band che aveva cambiato il concetto di pop music, di forma-canzone e in generale il livello dell’impatto che la musica potesse esercitare sulla società, era arrivata alla frutta. Ma invece, il paradosso è che la cosa succede proprio all’alba di un decennio che fortunatamente si rivelerà ben più che magnanimo con la rock and roll Hall of Fame. Però, intanto, lacrime infinite, gente che si strappa i capelli, mentre realizza che che l’happy family non era poi così happy.

Ce lo ricordano i King Crimson, nel loro Lizard, uscito pochi mesi dopo, in cui si butta lì – come un’allegra parata di cappa e spada – la fine del gruppo di Liverpool.

«Happy family, pale applause, each to his revolving doors / Silas searching, Rufus neat, Jonah caustic, Jude so sweet / Let their sergeant mirror spin if we lose the barbers win / Happy family one hand clap, four went on but none came back» – ogni riferimento a persone realmente esistenti o fatti realmente accaduti è puramente casuale.

My only friend (the end), ma anche qualcosa di meno traumatico

Facile buttare lì qualche citazione nota, no? È che per il ‘70 c’è veramente solo l’imbarazzo della scelta e la tentazione è troppo forte. Per dire, a dicembre dello stesso anno i Doors decidono che Jim Morrison non era più in grado di essere gestito. Suonano l’ultimo concerto insieme a Mr Mojo, accasciato a terra come un burattino ubriaco e senza più fili, al Warehouse di New Orleans, Louisiana. Ecco, basta prendere uno dei punti più emblematici del loro corso lirico per intendere un po’ che aria tirava in quell’anno così surreale, triste e magico allo stesso tempo.

«It hurts to set you free / But you’ll never follow me / The end of laughter and soft lies / The end of nights we tried to die / This is the end» – e poi uno dice che la speranza è l'ultima a morire.

Poi ovvio che mettere un punto alle cose non necessariamente implica che vada per forza tutto a rotoli. Simon & Garfunkel pubblicano all’inizio dell’anno Bridge over Troubled Water, che sarà l’ultimo album insieme, e forse anche uno dei più ambiziosi. Quell’anno vincono sei Grammy, tra cui Miglior Canzone (l’omonima) e Miglior Album. Il disco, ovviamente, sta in cima alle classifiche inglesi per più di dodici mesi, raggiungendo circa le 25 milioni di copie vendute. Quel che si chiama un lieto fine.

«Oh, when darkness comes / And pain is all around / Like a bridge over troubled water / I will lay me down» – finirla senza troppi drammi.

Cronaca nera

E meno male. Perché intorno il panorama pare decisamente funereo, infestato di tragedie ben più reali dello scioglimento di un’allegra famiglia di scarafaggi. Mentre David Bowie si sposa la super modella Angela Garnett e Johnny Cash suona alla Casa Bianca invitato dal presidente a tinte fosche Richard Nixon, si consumano altri grandi ceri, disciolti così – chi più lentamente, chi meno – come sotto un triste soffio.

17 settembre – Jimi Hendrix fa l’ultima sua apparizione con Eric Burdon & War in una jam al Ronnie Scott’s Jazz Club a Londra. Il giorno dopo, causa una dose eccessiva di barbiturici e altra robaccia, viene trovato stecchito nel suo hotel di Londra. Aveva, come è noto, 27 anni.

Se volete riascoltarvela tutta e siete capaci di trattenere le lacrime, eccola qua.

4 ottobre – Janis Joplin fa la stessa esatta fine, ma a cinquemila miglia di distanza: Hollywood, Landmark Motor Hotel, overdose d’eroina. Aveva, come è noto, 27 anni. Mentre a inizio anno James “Shep” Sheppard era stato recuperato, sempre troppo tardi, nella sua auto sulla Long Island Expressway. Picchiato, derubato e ucciso. Lui di anni ne aveva 24: si era portato avanti.

Saranno mesi davvero tristi sotto molti aspetti. Eppure tutto ciò non sarà certo capace di ammutolire il resto. L’elettricità continua la sua scalata di watt, gli amplificatori si moltiplicano sui palchi, i sobborghi si popolano di nuovi musicisti, le chitarre sono vendute come il pane. E anche il fatto che il proprietario di quei seicento acri di terreno a Bethel, NY – Max Yasgur – si becchi una querela da tutto il vicinato per i casini di Woodstock, più che un accenno di restaurazione reazionaria, è la prova che la macchina messa in moto non poteva fermarsi così facilmente.

E quindi chi suona stasera?

La cosa si era già intuita nel corso dell’estate (26-31 agosto): non molto lontano da Londra infatti – a East Afton Farm, giusto davanti alle coste inglesi – quella che sarà (e probabilmente già è) la Storia della Musica si era incontrata al Festival dell’Isola di Wight. 600,000 persone prese benissimo per alcuni degli show più importanti di sempre. In giro, in mezzo a un caos altrettanto epocale, cori riottosi, scontri con le forze dell’ordine, spinelli a gogo, in pratica un’altra Woodstock: The Moody Blues, lo stesso Hendrix, The Who, The Doors, Chicago, Leonard Cohen, Richie Havens, John Sebastian, Joan Baez, Ten Years After, Emerson, Lake & Palmer, Jethro Tull.

E poi Miles Davis. Tutti si fermano, lasciano perdere il macello e si godono qualcosa di irripetibile. Nella dream-band per l’occasione figurano Gary Bartz al sax, Chick Corea alle tastiere, Dave Holland al basso, Jack DeJohnette alla batteria, Airto Moreira alle percussioni e un giovane Keith Jarrett al piano elettrico.

Tutto, sul palco, scorre come se nulla fosse, come se jazz e rock fossero sempre stati lì a fumare insieme, sdraiati in un prato.

Preparate le candeline

E se proprio di commemorazioni dobbiamo parlare, la lista intimidisce quasi. Limitiamoci quindi alle imprescindibili. Per esempio, un saluto al signor Neil Young, ancora poco conosciuto al tempo, che nel 1970 si prende le sue soddisfazioni e assesta un bel colpaccio di martello ai chiodi della sua carriera. Se After the Gold Rush non fosse stato già abbastanza, è con l’allegra combriccola di Crosby, Still e Nash che tira fuori dal cilindro un album memorabile come Déjà Vu.

In uno dei brani iconici, Jerry Garcia si unisce alla pedal steel guitar – se in quattro non fossero stati già abbastanza ci pensa l’amico dei Grateful Dead a metterci l’ultima parola.

E se appunto anche i Grateful Dead se la passano da dio, il punk gagliardo non è da meno, proprio lì, giù nella strada, vera e propria casa del divertimento. Gli Stooges escono con Funhouse e altra simpatica psichedelia aleggia lì intorno coi Funkadelic, in Free Your Mind…and Your Ass Will Follow – programmatica apologia dello stato di groove ed esaltazione che comunque permeava quell’anno del Signore.

Pure il jazz sorride di gusto. E ce n’è davvero per tutti i palati. Se la storia del suo divenire sempre più cangiante, sperimentale e favorevole all’inserimento in molti altri cassetti passa sicuramente per il capolavoro del sopracitato Miles Davis Bitches Brew, abbiamo un’altra serie di uscite su cui si pone il suggello del grande anniversario. Bill Evans ribadisce l’indipendenza del pianoforte solitario in Alone, John McLaughlin amplia i panorami della sua musica investendola di contaminazione indiane (l’album è dedicato al guru spirituale Sri Chinmoy), Alice Coltrane tiene testa allo spiritualismo con Ptah, the El Daoud e qualche mese dopo con Journey in Satchidananda, sancendo ormai l’interesse totale per l’induismo.

Last (but not least), il rock decide bene finalmente di evolversi. Fin dai dintorni di Deep Purple in Rock si era cominciato a capire che probabilmente c’era la possibilità di spingersi ancora più in là con le distorsioni e la pesantezza delle chitarre. Il temine heavy iniziava già a circolare: mancava solo qualcuno che avesse la fortuna (e la genialità) di piazzarsi nelle file più oscure – lì, esattamente tra due mostri sacri come gli Zeppelin e gli Who.

The Old Wave of British Heavy Metal.

Tremate, tremate

L’abbiamo già detto: in ogni storia epica, in ogni tragedia greca, in ogni saga o leggenda, dalla fine di qualcosa nasce sempre l’inizio di un’altra storia. L’ombra della morte in genere inizia a manifestarsi con degli oscuri presagi prima nella letteratura e nel cinema del tempo, per poi donare così nuova linfa alla scoperta di nuovi territori. In questo caso, due anni prima era uscito La notte dei morti viventi, con cui il cinema del terrore aveva anticipato tutti nel captare i nuovi gusti di pubblico sempre più famelico di metafore horror.

Quei bravi ragazzi.

«Is it the end, my friend? / Satan’s coming ‘round the bend», si sente in un brano che gira allora nei dintorni di Birmingham. L’occasione è un Sabba Nero, il suono è quello del diabulus in musica (il tritono medievale che sembrava così dissonante alle orecchie dei londinesi), l’appeal è quello di Satana stesso. Il tempo delle streghe (dilatato e nero come i boschi del folklore più leggendario) è finalmente arrivato e serpeggia come un fremito inaspettato in un hard rock ormai già stantio. Il mercato discografico è pronto ad accogliere una doppietta destinata a immortalare un nuovo genere nella storia della musica. Black Sabbath e Paranoid, i primi due dischi di un quartetto proveniente dalla working class inglese – Ward, Iommi, Butler, Osbourne – fanno aprire le orecchie al mondo: è nato l’heavy metal.

Da lì in poi la cosa diventerà un affare importante, pure con le sue punte di ridicolo: da un lato la forza dello stoner, del doom, l’ambiguità dell’occulto preso in prestito per fare goth rock, ma anche il famoso pipistrello e tutte un sacco di amenità varie che renderanno gloriosa l’origine mitica del genere e il suo sviluppo. Ma il fatto è che c’è solo una band che può vantarsi di aver dato origine alla cosiddetta Nativity in Black: quanti possono dire di aver fatto uscire due capolavori padri di un genere nel medesimo anno?

Che sia proprio nella fine inscritto l’inizio di un’altra storia è una cosa che ci piace ribadire mentre ancora una volta continuiamo a credere che le fate indossino gli stivali.

Di nuovi inizi

Tutto scorre, tutto ritorna, tutto riparte e si rigenera.

Nel 1970, a Londra, memori della morte dei Re, non potevano che nascere le Regine. Farrokh Bulsara detto “Freddie” viene presentato a Brian May. Gli Smile diventano Queen.

Queen è un nome corto, semplice e facile da ricordare ed esprime poi quello che vogliamo essere, maestosi e regali. Il glam è parte di noi e vogliamo essere dandy. (Freddy Mercury)

Sempre in quell’anno si formano gli Aerosmith – dandy di Boston, o preferibilmente “The Bad Boys of Boston” – che si ritroveranno a diventare una delle band più emblematiche della storia dell’hard rock da classifica, icone pop inserite trasversalmente nel cinema e nella televisione, costantemente capaci – più o meno restando una band da un milione di dollari per esibizione – ancora di animare le folle e non solo il fan club dei Blue Army. Ancora oggi, Steven Tyler e Joe Perry si mantengono esteticamente invincibili e portano avanti la bandiera d’impatto Rolling Stones.

E ancora cose più di nicchia, ma non meno necessarie, una su tutte la nascita dei Weather Report, mistura di R’n’B, funk, jazz, musica etnica e quanto di più fusion ci possa essere in un calderone di influenze tra le più disparate e tra le più formidabilmente tenute insieme. Pur restando negli anni fondamentalmente un quintetto, la formazione vedrà passare al suo interno alcune delle voci sicuramente più importanti del panorama jazz di allora. Al posto di capitano il pianista Joe Zawinul, Wayne Shorter al sassofono e il bassista cecoslovacco Miroslav Vitouš (anche se in quel ruolo si sono succeduti nel tempo gli altrettanto grandi Alphonso Johnson, Victor Bailey e Jaco Pastorius). Alla batteria e percussioni, invece, hanno offerto il loro contributo Peter Erskine, Alex Acuña, Airto Moreira e Chester Thompson.

Millenovecentosettanta modi di fare jazz.

L’inizio dei Seventies: tempi intrisi di fusione, contaminazione, nuove ispirazioni probabilmente non potevano coincidere con una situazione globale sempre più difficoltosa, stando alle news e ai bollettini di guerra, che si alternavano rapidamente con i caroselli pubblicitari della nuova Camaro o del primo volo di lusso in Boing 747. La fenomenologia di un anno come quello traccia inevitabilmente leggendarie e mitiche connessioni, dalle quali ci siamo lasciati prendere, poiché si creda quel che si vuole, ma come nelle grandi narrazioni, tutto è materia e contributo al dipanarsi della storia e all’arco dei suoi personaggi. A entrambi – la Storia e i suoi Personaggi – un sentito grazie e un caloroso buon anniversario per le loro nozze d’oro.

Black Sabbath Beatles Doors Jim Morrison Paul Simon Art Garfunkel Weather Report Jimi Hendrix Deep Purple 

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