La storia è piena di band finite nel dimenticatoio alle quali, poco per volta, la storia finisce con il dare piena ragione. E ci sono casi in cui il tempo è galantuomo non per modo di dire. Gli ACR sono (ancora) qui a dimostrare entrambe le tesi.
Sono come i Joy Division, ma si vestono meglio. (Steve Coogan nel ruolo di Tony Wilson in 24 Hour Party People)
Avrei voluto esserci, la sera in cui quella frase fu pronunciata. Ammesso che Tony Wilson l’abbia detta davvero. Anche non fosse, in ogni caso andrebbe benissimo il sagace “falso d’autore” cinematografico di Michael Winterbottom. Avrei voluto esserci per gustarmi gli A Certain Ratio (loro i destinatari dell’elogio) e ribattere al boss della Factory che le cose stavano un po’ diversamente. Al di là dei gusti sartoriali, ammesse le evidenti somiglianze nel cantato e preso nota del valore aggiunto comune incarnato da Martin Hannett, con flemmatico garbo avrei messo sulla bilancia qualche distinguo.
Tanto per cominciare, che la disperazione esistenzialista di Simon Topping e soci era tagliata dai raggi di un sole che sarebbe diventato sempre meno pallido. Poi – prima, in realtà – che maneggiavano un senso del ritmo in cui mutazioni black e sarabande latine sostituivano la scheletrica risonanza ispirata dai NEU! – non sono dettagli, ne converrete.
Su una cosa saremmo stati d’accordo: che dalla loro parte i Joy Division avevano – e avranno in eterno – canzoni di una lega ultraterrena, saldata con la dimensione larger than life di un mito sovragenerazionale. Caratteristiche che li consegnano all’Olimpo, ma che in questo caso passano in secondo piano. Continuando il gioco dei paragoni e chiudendo un cerchio, qui torna più utile partire dalla descrizione che di sé diedero proprio i New Order, quando si definirono «the Smiths you can dance to». Ecco, a proposito dell’ensemble per comodità chiamato ACR, può valere un pittoresco «the Joy Division you can groove to», al quale aggiungere influenze jazz e contaminazioni terzomondiste, sperimentate con la stessa lungimiranza utile a spiegare che “funk” è una parola di quattro lettere. Però del tipo da pronunciare spesso e volentieri, specie se accanto ci metti “punk” e “post” prima di tanti altri.
Capiscuola non per modo di dire, ironia vuole che gli A Certain Ratio fossero in netto declino allorché la loro città natale divenne Mad. Poco male, considerando che i semi della benefica follia di Manchester erano caduti anche dalle mani di un gruppo che vedrà chiarita la funzione storica e stilistica nel nuovo secolo. Ovvero, nel momento in cui un post-rock assurto al rango di classico e l’ennesima “nuova” wave mostreranno di aver raccolto un multiculturalismo forgiato con gli arnesi di Talking Heads e Gang of Four, sebbene da una prospettiva meno intellettuale e preferendo le danze alla militanza.
Supponiamo infatti la non esistenza di un solo lato di quel fantastico triangolo e vedremo LCD Soundsystem, !!!, Hot Chip e Rapture svanire come in Ritorno al Futuro, gli Happy Mondays impaludarsi in una vita di spaccio e sussidi, maestri come Andy Weatherall e Norman Cook (ammiratori conclamati: gli ACR comparivano spesso nei DJ set del primo e l’altro li remixerà) prendere strade diverse.
Sarebbe un mondo più triste, non credete? A dirsi importante, oltre alla bellezza della musica, è l’attitudine che spinse a uscire dalla gabbia talebana del punk per tuffarsi in nuove avventure. Ed è sempre il misto di cinica risolutezza e apertura mentale che rende attualissima una manciata di vinili marchiati Factory. (Ri)ascoltare per credere.
Prendevamo acidi, fumavamo erba, andavamo negli spacci clandestini di alcolici e ascoltavamo i sound system – da lì viene l’influenza dub. (Martin Moscrop)
Vale la pena spendere qualche parola sul retroterra del progetto che nasce nel ‘77 attorno a Topping e Peter Terrell. Preso il nome dal brano The True Wheel di Brian Eno e l’esempio dalle plumbee meditazioni dei Cabaret Voltaire, il cantante e il chitarrista (nonché addetto all’elettronica) accolgono Jez Kerr (basso, voce) e Martin Moscrop (tromba, chitarra). In un quartetto eclettico che inizialmente rinuncia alla batteria convivono espansioni dub, lustrini glam, la lezione di Hawkwind e Velvet Underground e la stretta attualità rappresentata da Sex Pistols e Clash. Quando l’incendio punk si esaurisce, i ragazzi reagiscono tenendosi stretti gli Wire e ascoltando Throbbing Gristle, Kraftwerk e un funk che si salda alla passione di Moscrop per le sonorità africane.
Dopo averli notati sul palco con indosso i completi anni Cinquanta successivamente alternati alle divise paramilitari, Rob Gretton segnala gli A Certain Ratio a Wilson, entusiasta al punto da accasarli seduta stante chez Factory e diventarne il manager.
Supervisionate dal produttore “della casa” Hannett, nel 1979 cinquemila copie del singolo All Night Party vanno esaurite in un battibaleno. Nondimeno paiono piuttosto acerbi sia l’oscuro fremito del lato A che The Thin Boys, melmoso retro di taglio rumorista.
L’estate segna la svolta con l’ingresso del batterista di colore Donald Johnson. Fan sfegatato dei Funkadelic, è il tassello mancante della compagine che in ottobre sfoggia da John Peel ben altra personalità. Assieme a Don è arrivato il groove. Il cambiamento si avverte, forte e chiaro.
Rodata l’intesa un concerto dietro l’altro, il debutto sulla lunga distanza ha un formato insolito: disponibile solo su ordinazione, The Graveyard and the Ballroom è infatti una cassetta contenuta in una tasca trasparente dal colore diverso a seconda delle edizioni.
Bizzarra sortita che merita eccome, per un lato dal vivo al londinese Electric Ballroom – in trasferta i Mancunians aprivano per dei Talking Heads molto impressionati da una potenza attenta alle sfumature – e incisioni in studio già mature. Menzione d’obbligo come minimo per per la trascinante gemma Do the Du e i Cure esuberanti di Faceless, per il funk mestamente kraut di Flight e l’appuntita I Fail.
Al costo di cinquanta sterline, gli A Certain Ratio incidono una cover di Shack Up dei Banbarra, oscurità disco-funk americana dei medi Settanta tuttora oggetto di culto oltremanica e in ambito hip hop. Tramite sottili dissonanze e squadrature, la trasformano in new wave ballabile con intelligenza e rincarano la dose nel seguente 12” con una rimaneggiata Flight in volteggio tra incubo ed estasi su cardini Eno-logici, una Blown Away tesa e gassosa e la sinistra cavalcata And Then Again. Su interessamento della Island il gruppo pianifica inoltre una rilettura di Houses in Motion con Grace Jones che purtroppo non si concretizza, così che la versione cantata da Kerr prenderà polvere fino al 2019 e al doveroso ripescaggio della retrospettiva ACR: BOX.
I capolavori, intanto, attendono dietro l’angolo.
Alla Factory nessuno aveva la più pallida idea di cosa stesse succedendo e di cosa stesse facendo. Questo era il bello della faccenda: il caos. (Jez Kerr)
Tutto si può dire di Tony Wilson, tranne che mancasse di fiuto e coraggio. Quando all’inizio del 1981 Shack up si arrampica fino alla quarantaseiesima posizione della classifica dance di Billboard, rischia e investe qualche soldo mandando gli ACR in gita a New York.
Allargatisi a sestetto con la cantante Martha Tilson, i Nostri tengono concerti cui per questioni di affinità elettive presenziano i Liquid Liquid e degli imberbi Beastie Boys, mentre una Madonna ai primissimi passi talvolta funge da spalla. Quel che più conta, è che in tutto questo fervore mettano finalmente mano a un 33 giri. Saggia decisione numero uno, poiché in To Each… Hannett avvolge gli strumenti dentro nubi opache che pongono in risalto la fantasiosa compattezza della sezione ritmica, distillando un suono astratto ma al contempo fisico che trasporta strutture e idiomi del funk su desolati fondali post-industriali.
Saggia decisione numero due: pensare ad alcune composizioni presenti sul nastro e scoprirle troppo belle per essere escluse. Così, versioni nuove e superiori della tirata Choir, dell’alienato scatto The Fox e del gotico appropriatamente fluido di Oceans si affiancano a materiale più recente senza che si avvertano cesure o cali di tensione. Alla slanciata e dinamica Felch rispondono le articolate My Spirit e Loss e il gioco di pieni e vuoti Forced Laugh è riverberato da Back to the Start, dilatato cocktail a base di go-go e samba per androidi. Apoteosi in coda, dove la lunghissima e ipnotica Winter Hill trasloca l’Amazzonia in un immaginario continente nero.
L’annata si chiude alla grande con l’LP in cima alla graduatoria indipendente nazionale, un’altra visita da Peel e il fascinoso etno-funk Waterline fuori a 45 giri.
Continuando a picchiare il ferro rovente, in gennaio Sextet offre una risposta assolutamente all’altezza. Salutato Martin, gli A Certain Ratio si muovono da soli con ispirata eleganza e la Tilson – che se ne andrà quasi subito – contribuisce con subliminali e moderne tinte soul a un intreccio rafforzato con ricordi del jazz elettrico di Miles Davis. Accanto alla formidabile Knife Slits Water (scorribanda in paranoia degna dei migliori P.I.L.) e all’euforico basso slappato che in Lucinda incastra ballo e straniamento, il magico equilibrismo di contemporaneità e futuro innerva episodi al crocevia fra Pigbag e Slits (Gum, Day One) e splendori che addirittura anticipano i Tortoise e il trip hop (Rialto, Below the Canal).
Il momento di grazia prosegue con l’umoristico pseudonimo Sir Horatio e il reggae candeggiato del 7” Abracadubra, dopo di che il gruppo appare una terza volta alla BBC con il nuovo innesto Andy Connell a tastiere e percussioni.
I’d Like to See You Again esce negli stessi giorni autunnali, vende bene pur convincendo solo a tratti. In un’ennesima similitudine con i New Order, il tuffo nella New York trasversalmente danzereccia ha lasciato il segno in slarghi post disco, venature latinoamericane e tentazioni electrofunk. Metamorfosi sulla carta assai intrigante, se non destasse una certa preoccupazione l’ammorbidimento delle sonorità e del piglio esecutivo – forse uno strascico della recente iperattività – che sfocia nelle dimissioni di Terrell e Topping. Per chi si appresta ad affrontare le assenze non ci sarà nessuna Blue Monday.
Amavamo il funk, ma non c’era verso di suonare nella stessa maniera perché in quei dischi trovavi i migliori musicisti americani. A un certo punto abbiamo comunque provato a essere come loro e la cosa si è trasformata in un tentativo di essere commerciali. (Martin Moscrop)
Puntuale come d’abitudine, in Rip It up and Start Again Simon Reynolds rileva che, con l’imporsi del new pop – attorno al 1983 – gli alchimisti wave-funk prendono a cospargere i dischi di laccature e virtuosismi. Gli Scritti Politti sono l’esempio più eclatante, ma anche gli ACR cadono vittime di un complesso di inferiorità verso i maestri che cercano di imitare. Si concentrano sulla tecnica e il “bel suono” e perdono l’originalità in precedenza assicurata da un approccio anticonvenzionale. In altre parole, sognano di essere i Parliament, si svegliano nei panni dei Level 42 e se non è un incubo, poco ci manca.
Entrato in squadra il sassofonista Tony Quigley, traccheggiano con una serie di passi poco rilevanti sul piccolo formato e incassano il forfait di Connell, destinato al successo con gli Swing out Sister.
Nell’86 lo slavato Force conclude male il rapporto con la Factory. Che il fiato sia corto lo certifica il diradarsi delle uscite: altri dodici mesi e il tappabuchi Live in America serve da anticamera per il passaggio alla A&M e un progressivo inaridirsi che i rimpasti dell’organico non possono arginare. Formalismi e vacuità affondano Good Together, laddove ACR:MCR risale in parte la china strizzando l’occhio a house e baggy a fronte di una scrittura piatta.
In chiusura di decennio, un nome in breve transitato dal precorrere al rincorrere è a piedi contrattualmente. A soccorrerlo intervengono Gretton e la Creation. Ciò nonostante l’accanimento terapeutico prosegue lungo i Novanta con l’orizzonte piatto di Up in Dowsnville e di Change the Station. Poi basta, almeno per un po’.
Il nuovo album si fa attendere una decina di anni, eppure è in quel silenzio apparente che il peso degli A Certain Ratio emerge in via definitiva. Non un paradosso, siccome un attivissimo mercato delle ristampe si somma agli attestati di stima delle nuove generazioni e il processo ha come ulteriore conseguenza il dignitoso Mind Made up, allestito nel 2008 da Moscrop, Kerr e Donald più carneadi e Denise Johnson, un’amica con trascorsi alla corte dei Primal Scream. In parallelo all’attività concertistica e a un ennesimo rispolvero del catalogo gestito dalla Mute, la replica porta dritti al qui e ora. A brevissima distanza dall’improvvisa scomparsa di Denise, nel settembre 2020 ACR Loco offre il riassunto estetico che ti aspetti da chi, affrontato il passato tramite la corposa antologia ACR:BOX, ne tiene conto pur cercando di andare oltre.
Da questo dualismo originano alcuni perdonabili inciampi, ma soprattutto azzeccate rielaborazioni della Madchester che fu, jazz mescolato con la drum’n’bass, ipotesi di tropicalismo al silicio e motorik da balera.
Realisticamente, sarebbe assurdo pretendere di più da un’apprezzabile “terza vita”. Allo stesso modo, è fuor di dubbio che la carica innovativa e la grandezza degli A Certain Ratio siano conservate in una stagione breve e fruttuosa. Eroi per un triennio, gli operai del nord hanno conquistato l’eternità con fiera determinazione. La festa, per quanto mesta, è ancora qui.
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