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Atreyu: Forevermore
Smalti e ombretti: so metalcore!

Provare a resuscitare un giovane guerriero che ha perso il cavallo nelle paludi della tristezza.

Gli Atreyu sono arrivati con l’infornata di nuove band che avrebbero dovuto rappresentare l’ennesima tendenza da seguire, imitare e comprare: il metalcore. Purtroppo o per fortuna, proprio in quegli anni le reti flat e il file sharing erano dilagati definitivamente, provocando il flop di quel fenomeno inventato a tavolino e chiamato con un nome nuovo per riciclare qualcosa di vecchio e allo stesso tempo svuotando i negozi di dischi – con la conseguente perdita di lavoro di tante persone. Tale cambiamento ha avuto il merito, però, di privare poche lobby del potere di far nascere e morire carriere discografiche.

Forevermore non è geniale come il video che la rappresenta, ma contiene in sé un’anima autentica, catturata nella griglia di arpeggi e gorgheggi, come un pesciolone dorato delle fiabe russe, incantato e libero solo di risplendere e illuminare il cuore degli ascoltatori. Il brano non esplode mai, non opta per una rimasticazione più veemente nella seconda parte, con chitarroni e ritmiche customizzate delle linee melodiche e dei pochi fraseggi d’accompagnamento: preferisce dare tutto in mano agli archi e alla verve interpretativa delle voci fino alla fine.

Non c’è niente di più potente di un grido trattenuto con rabbia: esplode dagli occhi, riecheggia nel silenzio come un’onda invisibile. Gli Atreyu sono ancora qui, nonostante il sistema che li acchittò e spinse sulla pista di pattinaggio per un giro trionfante, prima di spegnere le luci e svanire nel nulla abbandonandoli a se stessi. Un brano del genere è l’esempio di quanto questa band meritasse la nostra attenzione: esprime la frustrazione di un mondo troppo strano, disciolto nel liquame dello streaming compulsivo e dello zapping mentale. In fondo è una nenia robusta che vorrebbe svegliarci dal torpore serotoninico. Parla di questo e di molte altre cose.

Atreyu 

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