Una prima volta: una sorpresa bellissima, nonostante l’amarezza.
So benissimo quali saranno i miei capi d’imputazione: non ho mai dato la giusta attenzione al menestrello di Detroit, Sufjan Stevens. Lo ammetto ma, a mia discolpa, posso ben dire di averne sempre percepito la grandezza, sulla fiducia di chi bene ne ha sempre parlato, e sapevo che il momento sarebbe arrivato.
E finalmente eccoci qui, mentre mi struggo davanti a So You Are Tired, un dialogo unilaterale dopo 14 anni. Ascolto Sufjan cantare di stanchezza, di irreparabilità e di scherzi del destino. Unendo profondità e carezzevole pop, ci accarezza, sostenuto da un coro di voci angeliche che ne amplificano il pathos come nei più grandi classici, ben sapendo che questa storia non potrà mai avere un lieto fine ma sarà piuttosto l’ennesima rottura che farà crescere ancora un pochino: quella sofferenza che, se non si lascia libera a indurire la scorza, potrà servire per passare un’altra stagione.
La chitarra si libra leggera e delicata: è un vecchio trucco, quello di stemperare un momento difficile, così come quello di utilizzare parole e suoni per trasmettere pure emozioni. Lo fa quasi da un quarto di secolo, Sufjan Stevens, e l’idea che mi sto facendo è quella di un musicista sincero e dal cuore aperto. Un musicista che è stato in grado, per metà della sua vita, di veicolare una sua poetica in maniera tanto convincente da diventare universale. Proprio per questo sono convinto di avere tutto il tempo del mondo per recuperare il suo lavoro senza che questo perda un grammo del suo fascino. Inizierò da Javelin, che il 6 ottobre si avvicina, ma prometto di andare a ritroso e di non perdermi nemmeno le sue perle più nascoste. Certo i dischi non mancano, e non vedo l’ora.
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