L’arte dimenticata di mantenere i segreti.
Se Elliott Smith fosse stato una donna probabilmente sarebbe stato Joni Mitchell. E viceversa. Se entrambi si reincarnassero oggi nel corpo di una stessa persona, questa sarebbe Margaret Glaspy. Le sue canzoni condividono la stessa onesta (nel senso di devastante), intima – ma mai autoindulgente – autoreferenzialità del primo, quanto la creatività nell’intonazione melodica della seconda.
Anche a livello di testi, Margaret è capace di passare – senza perdere minimamente in efficacia – dal racconto distanziato in terza persona a una profonda analisi di sé a cuore aperto. Infatti i suoi lavori sono, prima che altro, fondamentalmente dischi di storie – che siano proprie o altrui non fa molta differenza –, nel senso di songwriting più caro alla tradizione folk americana. Eppure sconfinano (sapendo di sconfinare e soprattutto sapendo come sconfinare) placidamente oltre i confini di un rock’n’roll al femminile dove il concetto di “ragazza con la chitarra” ha storicamente calato i suoi assi migliori.
Sì, perché nel suo caso la relazione (a tutti gli effetti sentimentale – ascoltare per credere) chiave non è tanto quella tra i personaggi che animano i testi (lei? Un amante? Un latente rimorso? Una sana, colpevole disillusione?), quanto quella tra lo strumento che immancabilmente imbraccia e la voce che riesce a tirar fuori da dentro: il primo ha un suono primitivo – tutt’altro che amatoriale, ma nudo e crudo – e compensa la seconda, quando ce n’è bisogno, pur lasciando tra un riff e l’altro tutto il tempo e lo spazio (dilatati o compressi, sempre quelli giusti) per un cantato a volte sommesso e rassegnato, a volte gridato e potente.
Possiamo tirare in ballo Angel Olsen, Adrianne Lenker, Soccer Mommy, perfino Torres in certi momenti in cui il pedale della distorsione si prende la scena. Ma per trovare i nomi giusti a cui accostarla dobbiamo risalire la corrente fino a quei primi anni ‘90 in cui lei era poco più che appena nata: Alanis Morrissette, Ani DiFranco, Suzanne Vega. Reminiscenze (ormai) quasi ancestrali rimesse in pista grazie all’unico carburante in grado di fare sul serio la differenza, a questo punto: un’imprevedibilità stilistica difficilmente catalogabile, quasi ai limiti del vezzo anarchico. Tagliare e fondere insieme influenze e idee, suoni e algebre distortamente poetiche in un corpo unico, ma quasi inafferrabile, anche se in grado di attirare tutta l’attenzione fin dal primo istante.
Echo the Diamond è già il suo terzo disco, eppure, a nominarla in giro, pare di stare a svelare il segreto meglio custodito dell’indie rock. Di fronte a tutto questo talento, sarà possibile mantenere il profilo così basso ancora per molto? I don’t think so.
Margaret Glaspy Torres Soccer Mommy Angel Olsen
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