Gli ex Wild Boys che non ti aspetti.
Una delle dicerie più sbagliate che (soprattutto in Italia) circondano i Duran Duran sin dagli anni ‘80 è che siano (stati?) una specie di boy band senza qualità artistica. La prima, per l’esattezza.
In realtà la stessa cosa la si potrebbe dire dei Beatles, dato che per buona parte della loro carriera i Fab Four vendevano valangate di dischi anche grazie ai loro bei faccini che facevano innamorare le teenager di mezzo mondo. Ma tutti sanno che sotto la facciata “carina” di talento ce n’era a paccate.
Il concetto vale anche per i ragazzi di Birmingham: se si tolgono i paraocchi e la si smette di fare i rocker/alternativi duri e puri, è innegabile quanto il loro gusto nel comporre e arrangiare brani epocali sia infinitamente superiore al lato prettamente estetico. Che poi quest’ultimo abbia (perlomeno agli inizi) aiutato, è una costante che riguarda un po’ tutti. Alla fine i Cure sono diventati qualcuno, i Sound no. E non solo per meriti artistici, sia chiaro: viviamo in un’epoca di falso buonismo e dire le cose per come stanno fa storcere il naso a molti, ma tant’è.
Insomma, i Duran Duran sono tornati. Con un progetto sicuramente paraculo, ma che nuovamente vede i Nostri spingersi fuori dalla comfort zone: un album (prevalentemente di cover) in uscita per Halloween dove, a fianco a classici di Siouxsie and the Banshees, Rolling Stones e Talking Heads, troviamo nuove versioni di brani già editi (tra cui Nightboat e Secret Oktober) e una manciata di inediti.
Danse Macabre fa parte di questi ultimi e il brano è di quelli che spiazzano il pubblico nutrito a greatest hits: non c’è quasi nulla, qui, degli ingredienti che hanno reso celebri i loro singoloni (giusto qualche nuance nel controcanto del ritornello), ma si ritrovano mille tratti stilistici presenti in molti pezzi minori o B-side che riuscivano a descrivere ancor di più l’anima sperimentale della band. Mai si era sentito un Le Bon rappare in maniera caricaturale, quasi fosse un imbonitore da Grand-Guignol dei giorni nostri, eppure il tutto si incastra alla perfezione con il sound cabarettistico industrial-pop in tinta noire imbastito da John Taylor, Nick Rhodes, Roger Taylor e Warren Cuccurullo (uno degli ospiti più inaspettati e graditi di questo album, assieme ad Andy Taylor).
Fare paragoni con il passato non ha senso, ma di certo quello che questa gente ha oggi da offrire è tutt’altro che un dolcetto amarcord per vecchi fan nostalgici, con buona pace di tutti coloro che continuano – erroneamente – a considerarli musica di plastica.
↦ Leggi anche:
Duran Duran: Five Years
Miss Trezz: Come Undone