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Yard Act: The Trench Coat Museum
Il bianco e nero ci era rimasto un po' sullo stomaco

La criticità psicologica del successo, tra le cronache di un cappotto.

Nel magico mondo del music business sussistono regole non scritte che paiono tavole dei comandamenti, ma al posto del Monte Sinai, sullo sfondo, c’è un qualsiasi salottino di una major. Ed è in uno di questi presunti elenchi che manovrano sotto sotto le leggi del mercato musicale, celati tra un divanetto di pelle e una pianta di ficus – Fantozzi intensifies –, che spunta in rilievo il sommo, eterno, inscalfibile postulato sui singoli da estrarre: pezzi bellini, non troppo lunghi, efficaci nel breve termine, paraculi al punto giusto e rigonfi di ferormoni per sedurre e accaparrarsi un bel posticino in rotazione radio.

Ma gli Yard Act, che schifano un po’ la consuetudine sfacciata dei nostri tempi, ci sputano copiosamente sopra, tirando fuori, a un anno e mezzo di distanza dal successone The Overload, un (gran bel) pippone introspettivo di otto minuti dal nome di The Trench Coat Museum, domato – si fa per dire – dalle vene pulsanti di un basso irascibile e deliziosamente post-punk, che serra maniacalmente il pattern ritmico attorno a cui viene romanzata la bizzarra storia del celebre trench che è un po’ l’immagine della band di Leeds e del suo leader James Smith.

Bislacche cronache che ricalcano la vena satirica della compagine inglese, giunta a un faccia a faccia con la fama e intenta a interrogarsi su come questa modifichi ciò che rotola attorno al loro emisfero – culturale e sociale – e, necessariamente, su come cambi la loro immagine agli occhi degli altri. Un distacco parziale dalle incazzature e dall’invettiva politica del debut, un nuovo spiraglio da cui poter ammirare un sophomore in fase di creazione, di cui The Trench Coat Museum non farà parte poiché ideato come singolo standalone e preparatorio – e perché «cozzava un po’ con la narrazione del disco», come dichiarato dallo stesso Smith a NME.

Insolitamente oscura, ossessiva nella sua voluta dilatazione temporale, con i richiami tribali che sfidano un ensemble strumentale elettrizzato da una palese tensione di fondo che ci ha riportato dinanzi i fendenti seghettati di Quarantine The Sticks – una traccia/teaser che si trascina dietro quel fare mascolino dello spartiacque: un solco che è un po’ un banco di prova autoimpostosi dagli Yard Act, superato con le mani in tasca, con la sigaretta in bocca e con quel trench che non ha fatto nemmeno una piega. D’altronde, qualcuno ha mai avuto dubbi su di loro?

Yard Act James Smith 

↦ Leggi anche:
Yard Act: The Overload

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