Un moto lento che acquista spessore e volume, crescendo in lontananza mentre si avvicina.
Torino, 2022. Tre ragazzi si incontrano, accendono qualche spia, fanno partire del suono, coltivano e germogliano batteri e fioriture. D’un tratto si accorgono che i frutti del loro flusso potrebbero smuovere, oltre ai loro corpi durante le dinoccolate maree sonore, anche il mondo esterno. Batteria, basso, chitarra, delle note di synth.
Scoperti grazie alla dritta di uno dei migliori pusher musicali in giro, il buon Renato Failla, emozionano e coinvolgono avvolgendoci in una cappa gelida. Dieci minuti di musica strumentale, tormentata e percussiva senza mai essere furiosa. Dosata, calibrata ed emozionante, come se in quell’area chiamata post-rock un musicista elettronico desse il tempo a musicisti post-hardcore. Troviamo l’ardore, l’urgenza, la precisione, la freddezza e il calore. Contrasti enormi, masse che si muovono come degli iceberg alla deriva. Il brano non sembra un risultato finale, ma una rampa di lancio, la costruzione di qualcosa di assolutamente necessario al superamento di uno scoglio, di uno svincolo, di una giornata. Noi non possiamo fare altro che ondeggiare seguendo la marea, sperando che le armonie si aprano e buttino fuori la loro rabbia e la loro bile.
Non succede: gli Wear Sunglasses for Apocalypse non si svelano e non esplodono, mantenendo dietro le lenti la furia e il dolore che li ha portati a farsi portatori di un certo tipo di suono. Tocca a noi montare e crescere, alzare ancora più la massa creando il peso per distruggere questa impasse, rovesciando e portando dalla nostra parte l’obiettivo.
DI sicuro i torinesi sembrano avere baricentro e solidità, pronti ad assorbire quanto succederà per rientrare con la prossima ondata, a donarci altri muri di decibel. Il loro disco è uscito a maggio e promette di essere una delle strenne alle quali aggrapparsi a protezione delle prossime, forti correnti.