Dentro ogni vecchio c’è un giovane che si sta chiedendo cosa diavolo sia successo.
Ogni generazione ha sempre dipinto quella nuova come una massa di smidollati. I nostri nonni lo dicevano dei nostri padri così come i padri lo dicevano di noi. È un circolo vizioso che fa parte dello scorrere del tempo. Purtroppo però, negli ultimi anni, è andato man mano scemando quel senso di appartenenza, di ideale, di politico nell’accezione più ampia del termine. Sembra che ai ragazzi nati dopo il 2000 non importi più nulla di nulla. Apatia? Disinteresse? Lobotomizzazione?
Il fatto è che laddove l’eroina negli anni ‘70 e ‘80 e le droghe sintetiche negli anni ‘80 e ‘90 hanno fallito, l’ombra lunga della tecnologia è riuscita a fare centro senza sforzo alcuno. Oggi siamo tutti dei tossici, attaccati allo smartphone 24/7, che ingurgitano bulimicamente ogni fregnaccia. E più le persone diventano assuefatte più l’asticella si alza.
D’altra parte, non è nemmeno tutta colpa dei giovani: i genitori dei Gen Z sono quelli nati negli anni ‘70 appunto, che una volta passata l’abbuffata bifaziosa della Milano da bere vs Milano da pere hanno visto le ideologie (sofferte, dure, sacrificali, ma reali) spazzate via dai sogni (volubili, effimeri, irraggiungibili nella concretezza). Lo sdoganamento della mediocrità intellettuale al servizio dell’apparenza più becera. Apparenza che ha inglobato anche linguaggi fino ad allora considerati “contro”. Ecco quindi che le creste blu vengono oggi fatte dal parrucchiere regolarmente pagate da mammá, le magliette del Che si trovano nei grandi magazzini delle multinazionali anche in versione girlie con sfondo rosa e le spillette “ACAB” sono già incorporate nei chiodi di similpelle predisegnati dallo stylist di turno al costo di uno stipendio medio di un operaio.
Non esattamente le premesse per sperare sul serio che la cosiddetta gioventù trovi improvvisamente la forza di tornare a lottare (in primis contro se stessa) per ritrovare i punti di contatto con ciò che siamo (o almeno dovremmo essere) veramente. Ma, se non altro, provare una volta tanto a dar peso al testo di una canzone che porta un messaggio forte e crudo – ben lontano dal doppio trittico “sole/cuore/amore” e “soldi/troie/gangsta” che ormai hanno preso in mano il banco da molto, troppo tempo – aiuterebbe.
La cosa triste è che YOUTH! Take a Stand non è opera di un artista adolescente e incazzato, ma di un vecchietto navigato che sembra essere ancora genuinamente pregno di quella rabbia che riusciva a smuovere se non il mondo perlomeno le coscienze. Classe 1970, Arnaud Rebotini ha un curriculum infinito che spazia dal metal estremo all’elettronica danzereccia e non, arrivando fino alle colonne sonore: è una di quelle figure poco conosciute al grande pubblico che andrebbero approfondite per capire i cambiamenti di un certo modo di fare musica negli ultimi trent’anni.
Il suo nuovo EP è un prendere a schiaffi le nuove e vecchie generazioni, colpevoli di ingoiare qualsiasi cosa e di lasciar correre ogni nefandezza che viene loro imposta: tutti ormai troppo avvezzi al peggio per reagire a qualsiasi stimolo. È un disco di technopunk (chiamiamolo così) con un forte messaggio di protesta, qualcosa di anacronistico di cui però oggi c’è tanto bisogno. Quel ritorno all’umano – sangue lacrime e denti stretti a pugni chiusi – contro ogni indignazione da divano dimostrata scrollando meccanicamente la homepage del social di turno: il cortocircuito voluto e dovuto che infila la lama nelle ferite artificialmente cicatrizzate dell’anima. Banalmente, una delle cose migliori che ascolterete in questi mesi.