Del passare del tempo: la poetica darkwave e la sua eternità.
Il problema che affligge buona parte della musica italiana cantautoriale tinta di indie negli ultimi anni è tanto banale quanto deprimente. Non mancano gli autori di buone canzoni, né tanto meno belle voci. Manca, quasi sempre, quel bisogno viscerale di raccontare qualcosa che vada oltre il semplice cantastorie. Che di filastrocche siamo pieni: sono i nervi e la bile le cose che danno i brividi, e poco importa se il tutto è imbevuto di imperfezione. Dopotutto è la vita stessa a essere imperfetta, e proprio per questo unica.
Alessandro Grassini – già noto nell’underground sia negli anni ‘80 grazie alla sua militanza nei Wilderness e nei leggendari Symbiosi, sia nei Zero con i mai troppo ricordati Dorothi Vulgar Question – è uno che non ha (più?) paura di mettersi a nudo e nel farlo usa una violenza interpretativa lacerante ben mascherata dall’apparente pacatezza del suo tono.
Affiancato da Matteo Lotti torna con La Macchia, dove il volume non conta: è lo scandire che colpisce dritto allo stomaco. Siamo di fronte a un brano complesso nella sua apparente semplicità, di quelli che vanno ascoltati all’infinito perché pur suscitando dolore creano dipendenza al primo ascolto. Un pezzo che ci regala un artista la cui anima è sì segnata dalla vita, ma che riesce a trasmettere tonnellate di disillusione in musica, dove “disillusione” non è sinonimo di resa, bensì un freddo manifesto di chi continua a lottare contro i demoni interiori, rendendosi conto di quanto in realtà sia l’esterno il nemico da combattere.
Invecchiare è un tragico lusso che possono permettersi in pochi: farlo con stile e spessore come Grassini è un esempio per tutti coloro vivono la musica fino in fondo.