Dalle nebbie di una matura arrendevolezza, esplode il grido controllato di un maestro.
Ray Alder è una delle voci più ispirate e sottovalutate del metal. Non solo ha guidato i cuori di un vasto pubblico oltre la foresta delle banali rappresaglie ferrigne, ma è anche un uomo che ha sempre cercato di dire cose complesse in modo semplice, con la mano leggera e rugosa di chi spremerebbe rape con una strizzatina, se lo volesse.
My Oblivion è una dimessa cavalcata esistenziale. Sa di giorni di pioggia anni ‘90, osservati dalle gigantesche finestre a vetri di un ufficio cittadino. Il colore che prevale è il cuore grigio di un blu quando fa notte a mezzo pomeriggio, vostra moglie vi ha lasciato e c’è una lettera di un luttuoso bianco sulla scrivania alle spalle con un potenziale congedo da un impiego che avete amato quasi quanto la vostra (non più) dolce metà, andata via con il giardiniere a cacciar farfalle nei cieli del Sud.
C’è chi ha paragonato la voce di Ray al burro caldo fuso che cola sul cuore di un corpo ormai quasi freddo e pronto per la cella frigorifera. Non è esatto: il suo canto ha qualcosa di più ancestrale, nel profondo dei computer, dei telefonini e delle maree di persone pronte a sorridere di fronte alle strizzate d’occhio cliccose del nulla mediatico. D’altronde, l’autunno è ogni volta che il cielo tuona e il vento tace.
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