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Aphex Twin: Blackbox Life Recorder 21f
Cosa ho fatto tutto questo tempo? Sono andato a letto presto.

Aphex Twin
Blackbox Life Recorder 21f

Tutta l’onestà intellettuale che sta nel plagio di se stessi.

Il problema, con Richard D. James, è sempre lo stesso. Dagli inizi degli anni ‘90 a oggi ha archiviato, per sua stessa ammissione, millemila bozze di tracce, campionamenti, piccoli suoni e rumori microscopici sapientemente cuciti insieme, field recordings ormai irriconoscibili nella loro originaria natura perché definitivamente mutate in veri e propri beat e sample sintetici. Fico, diranno i miei piccoli nerd drogati di archiviazioni compulsive su distese di terabyte sconfinate al punto che non basterebbe una intera vita di voi umani (e il relativo stipendio lordo) per poterle uploadare sul cloud. Sì, fico. Ma anche no. Perché manca un dettaglio: dagli inizi degli anni ‘90 a oggi, il producer più (ma anche meno) misterioso di sempre, le ha pure pubblicate con il contagocce. Saranno anche fatti suoi, diranno i miei piccoli fan polemici, eretti a difensori della libertà d’espressione a oltranza. Indubbiamente: fatti suoi al 100%. Non fosse che la conseguenza che tutto ciò comporta vada a stuzzicare maliziosamente gli appetiti complottisti dell’altra faccia della medaglia. Ovvero: ogni volta che esce qualcosa di nuovo a firma Aphex Twin non sei mai sicuro se sia sul serio musica nuova o una sorta di reperto archeologico saltato fuori da un hard disk risalente al secolo scorso.

Pure questo, per sua stessa ammissione: «Le macchine che mi sono costruito da solo non sono fuffa preprogrammata da qualche famoso tizio giapponese: possono generare così tante combinazioni di suoni da permettermi di andare avanti per un centinaio d’anni ancora, come minimo».

Inevitabilmente, quindi il dubbio atroce si insinua subdolo anche in questo caso, strisciante tra le sinapsi intente a bearsi delle (very) good vibrations stimolate da questa Blackbox Life Recorder 21f: quattro minuti e mezzo e un titolo – come al solito (particolare, anche questo, che va volontariamente a gettare benzina sul fuoco dei sospetti di cui sopra) – che richiama più il nome di un file mp3 che quello di una canzone vera e propria. 

In maniera molto simile a quanto accadeva nel 2018 con T69 Collapse (e in generale tutto il Collapse EP), anche qui si brandiscono le buone vecchie drum machine analogiche come fossero un giocattolo nuovo di zecca, condito con colpi di rullante così secchi che sembrano conservati sottovuoto, alternati a melodie che forse sono tra le più melodiche che il nostro artigiano abbia mai plasmato nelle ultime ere geologiche, mentre i pad sospirano in una demoralizzazione gentile, come se non ci fosse un domani ma ancora una qualche speranza che il domani l’altro sia almeno paragonabile a ieri.

Poi il groove si fa più massiccio: dei breakbeat irresistibilmente fastidiosi iniziano a fare capolino, fino a che una coperta pungente di crash via via più distorti fa sì che non possiamo più smettere di grattarci, durante il pruriginoso white noise che sentiamo sotto pelle a un certo punto. Senza mai che le cose si facciano troppo estreme, però: in ogni istante in cui percepisci che stiano andando fuori dai binari del buon gusto, tornano placidamente in carreggiata, per finire in un conclusivo minuto abbondante di ambient sobrissimo.

Così, ecco l’improvvisa epifania: il concetto di “inedito” è, a ben vedere, estremamente soggettivo. Nel senso che tutto è, per te, tecnicamente inedito finché non lo senti la prima volta. E allora la risposta alla domanda senza risposta di cui sopra è più semplice del previsto: che sia davvero – come sbandierato ai quattro venti da qualunque press release – la prima musica prodotta da Aphex Twin in cinque anni o una minestra scaduta riscaldata benissimo, la verità finisce, sempre e comunque, persa in quella sana, infinita vastità del cazzo che ce ne frega.

Aphex Twin Richard David James 

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