La consolante intensità di un anno che muore, ogni anno.
Non è ben chiaro perché, ma che Steve McQueen sia una fonte di ispirazione per buona parte di rocker e rockeuse indie e meno indie è assodato. Chiedete a Nick Cave, Sheryl Crow, M83, Drive-By Truckers, Lambchop e chi più ne ha più ne metta. Deve essere il nome, perché – ora che il buon Terrence Stephen altro non può fare che riposare in pace – l’omonimo regista pare aver preso il suo posto come mentore speciale di artisti in principio di crisi, nei panni di colui che dispensa saggi consigli da oracolo su come superare i blocchi creativi e impostare il processo di lavorazione di un nuovo (nel caso specifico un importante e soffertissimo decimo) album. «Dimenticati l’idea di scrivere un disco: concentrati sul tuo amore per parole, immagini, e suoni».
Detto, fatto. Una telefonata agli amici di sempre Flood e John Parish, uno studio messo su in quattro e quattr’otto per suonarci live all’insegna del “buona la prima” e I Inside the Old Year Dying pronto in meno di tre settimane. Buffo, considerando che da un lato ci saranno dentro input risalenti al 2017 e che, dall’altro, dovremo aspettare altri tre mesi prima di ascoltarlo. Ma si sa: in fin dei conti non è l’attesa di un disco, essa stessa, il disco?
Del resto, il personaggio di PJ Harvey non ha mai mancato di serbare un alone di mistero nel suo rivelarsi. Eccola quindi qui a fissare l’obiettivo con gli occhi socchiusi, immersa in sovraproiezioni di pellicole tremolanti a tema diapositive d’annata, campi sferzati dal vento, alberi ricurvi e quaderni scarabocchiati di appunti in forma di esoterici versi. E noi, di nuovo, eccoci qui a bearci di quel senso di straniamento che ci contagia ormai ogni volta che la Polly Jean post Let England Shake tocca qualcosa.
Eppure c’è un livello di indolenza nuovo, che rasenta quasi l’imbambolamento, nel ritmo esitante della chitarra ipnotica di A Child’s Question, August: giusto un paio di accordi appoggiati delicatamente tra capo e collo, un immaginario vagamente sinistro che però non spaventa, forse perché immerso in un ben studiato rifrullo di riverberi, eco e delay. Anzi: raramente PJ ha cercato – e men che meno offerto – conforto nelle e con le sue composizioni. Qui l’impressione è che succeda. «Love me tender / Tender love» ripete come un mantra e, alla faccia di Elvis, suona inaspettatamente caldo, davvero tenero e ben poco rock’n’roll: non esattamente decifrabile in toto (sia mai!), ma azzarderemmo almeno rassicurante.
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